Bollettino ADAPT 6 febbraio 2023, n. 5
Per partecipare alla competizione per la segreteria del Partito democratico, a norma di statuto (modificato in tal senso) non è necessario neppure essere iscritti. In assenza di questo banale requisito formale, ne è emerso uno sostanziale, a cui nessuno dei candidati ha potuto sottrarsi: prendere vistosamente le distanze dal Jobs Act. Ultimo ad adeguarsi, Stefano Bonaccini. Il governatore dell’Emilia Romagna, dato per favorito (anche se dalle prime votazioni dei circoli se la deve vedere con Elly Schlein) ha gettato il cuore oltre l’ostacolo ed è andato a riprenderselo: “Reintrodurre l’articolo 18? Assolutamente sì, toglierlo è stato un errore” ha dichiarato Bonaccini. Il candidato dagli occhiali a goccia doveva già farsi perdonare il flirt con le Regioni destrorse del Nord sull’autonomia differenziata che, dopo la presentazione della bozza Calderoli, è divenuta un casus belli tra il governo e le opposizioni. Non poteva permettersi dunque alcuna reticenza sulla grande abiura in cui è impegnato il Pd: ripudiare le misure più importanti attuate durante il deviazionismo renziano, soprattutto in materia di lavoro.
Magari sarebbe utile raccomandare ai dirigenti del Pd una maggiore attenzione ai termini quando si fa riferimento ad un pacchetto di norme consistente in una legge di delega su almeno cinque materie (ammortizzatori sociali; servizi per il lavoro e politiche attive; semplificazione delle procedure e degli adempimenti per la gestione del rapporto di lavoro; riordino delle forme contrattuali; maternità e conciliazione) e in ben otto decreti delegati attuativi. Qualcuno dovrebbe spiegare ai dirigenti del Pd che l’articolo 18 della legge n. 300/1970 non è mai stato abolito. Il d.lgs. n. 23 del 2015 (incluso nel pacchetto del Jobs Act) istituisce il contratto di lavoro (a tempo indeterminato) a tutele crescenti che può essere applicato ai nuovi assunti a partire dal 7 marzo di quell’anno, mentre l’articolo 18 resta in vigore come norma di carattere generale applicata alla manodopera già occupata. È vero che, essendo nuovi assunti, rispetto alla nuova azienda, anche coloro che cambiano lavoro, si potrebbe sostenere che in conseguenza della mobilità del mercato del lavoro, sarebbe in teoria arrivato un giorno in cui la nuova tipologia di contratto sarebbe applicata tendenzialmente a tutto il lavoro dipendente. Si vede, però, che la realtà è diversa o che comunque la nuova fattispecie non crea particolari imbarazzi ai lavoratori, visto l’esplodere delle dimissioni volontarie, alla ricerca di una diversa occupazione.
La nuova fattispecie risponde sicuramente ad esigenze di garantire maggiori flessibilità in caso di licenziamento ritenuto illegittimo. Il giudice ordina la reintegra soltanto a fronte di un licenziamento nullo, discriminatorio o intimato in forma orale. Nel caso di licenziamento disciplinare il giudice ordina la reintegra soltanto se sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore. Nel caso di licenziamento economico (per motivi oggettivi) è vigente solo l’indennità risarcitoria, ragguagliata con un minimo e un massimo all’anzianità di servizio del dipendente e quindi tale da predeterminare per il datore il costo del licenziamento (una indennità di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità). La Corte Costituzionale ha abrogato questa norma ritenendola lesiva della libertà del giudice di quantificare il danno. Pertanto, benché il legislatore del Jobs Act avesse optato per una predeterminazione ex ante dell’entità risarcitoria, l’intervento dirompente della pronuncia della Corte Costituzionale ha invece reintrodotto un regime sanzionatorio improntato ad una ampia discrezionalità del giudice, ispirata ai criteri richiamati dall’art. 18, comma 5, dello Statuto del 1970. Un’ ulteriore modifica ha elevato a 36 mensilità l’importo massimo dell’indennità risarcitoria, dopo che la Corte aveva dichiarato illegittimo il parametro di due mensilità per ogni anno di servizio, in base ai motivi della discrezionalità del giudice nel valutare l’entità del danno in modo “personalizzato”.
L’articolo 18 dei bei tempi che furono sopravvive “novellato” dalla legge n. 92/2012 ovvero dalla riforma del mercato del lavoro del ministro del governo Monti, Elsa Fornero, la quale fino ad ora è riuscita a schivare le critiche su questa norma per due motivi: i cambiamenti sono minimi anche se molto complessi; il furore iconoclasta si è concentrato sulla riforma delle pensioni, lasciando poco spazio ad ulteriori campagne denigratorie. La legge n. 92 prevede: una tutela reintegratoria nel caso di nullità del licenziamento, per insussistenza del fatto contestato ovvero qualora il fatto sia riconducibile a condotte punibili con sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi e dei codici disciplinari applicabili; il riconoscimento al lavoratore, attraverso l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, di una indennità tra le dodici e le ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in tutte le altre ipotesi. È prevista inoltre una procedura conciliativa preliminare presso le DTL per i licenziamenti economici.
Ma la vita tranquilla per l’articolo 18 novellato dalla legge n. 92 sta per finire. La riforma del mercato del lavoro del 2012 viene accusata di aver creato un’altra tipologia di esodati. Ovviamente le cose stanno diversamente, ma ormai parlare di esodati è divenuta una garanzia di ottenere un ascolto dopo il successo propagandistico che ha portato circa 200 persone, dopo la riforma pensionistica del 2011, a trovare il pretesto per andare in quiescenza con le regole previgenti. Nei giorni scorsi anche le lavoratrici che hanno subito, nella legge di bilancio, la modifica dei requisiti per usufruire di “opzione donna” non hanno esitato a definirsi, impropriamente, anch’esse esodate. Il nuovo caso nasca dalla richiesta dell’Inps di ottenere la restituzione delle somme erogate dall’ente nel periodo in cui, i licenziati senza lavoro, attendevano la sentenza sulla legittimità del licenziamento. La questione è stata sollevata dalla Confederazione dei sindacati di base (basta citare la sigla per affrettarsi all’esorcismo dantesco: Papè Satan, Papè Satan Aleppe!). I legali incaricati di seguire la pratica illustrano così i loro argomenti, pur non essendo in grado di quantificare le dimensioni della platea interessata. “Il problema che si pone oggi dopo la legge Fornero e il Jobs Act – è questa la tesi – nasce dal fatto che il giudice, pur avendo accertato l’illegittimità del licenziamento, non disponga una reintegra con effetto retroattivo dal giorno del licenziamento e quindi non sorga l’obbligo del pagamento di tutte le retribuzioni maturate dal momento del licenziamento fino al momento della reintegra’’. L’Inps – ma il presidente Tridico, interpellato, è caduto dalle nuvole – starebbe inviando una richiesta di restituzione degli ammortizzatori sociali percepiti ai lavoratori che hanno avuto ragione nel giudizio contro il datore di lavoro per il licenziamento illegittimo. Nella migliore delle ipotesi, – sostengono i legali – dovrebbero restituire solo dodici mensilità previste come indennizzo dalla Fornero. Nella peggiore, ad esempio nel caso di due anni di cassa integrazione e due di Naspi, dovranno restituirne 48. Nell’ipotesi, anche solo di 500 euro per ammortizzatori sociali (Naspi), il conto diventa – sostengono i legali – circa 24mila euro.
Vi sarebbero anche dei casi in cui sono state richieste cifre consistenti che vanno fino a 80mila euro per quei lavoratori che percepiscono dall’Inps integrazioni dai Fondi di solidarietà di categoria. Peraltro, l’Inps può procedere automaticamente al recupero delle somme nel caso in cui il lavoratore sia nel frattempo diventato pensionato oppure percepisca un’altra indennità. Il che avviene nel limite del quinto dello stipendio, ma senza alcuna concertazione con il lavoratore su un’eventuale diversa rateizzazione. Pare che di questo problema sia stato interessato anche il Ministero del Lavoro. Eppure la legge è chiara. Nei casi in cui il giudice ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanna il datore di lavoro a corrispondere un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto percepita dal lavoratore, dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegra. La misura dell’indennità non può essere comunque, inferiore a cinque mensilità e deve essere sottratto l’aliunde perceptum da parte del lavoratore. In ogni caso, sono dovuti per il periodo suddetto anche i contributi previdenziali e assistenziali. Gli ammortizzatori sociali erogati al lavoratore durante l’iter processuale per accertare la legittimità o medo del licenziamento individuale costituiscono l’aliunde perceptum, per di più in regime di contribuzione figurativa. Non si capisce allora perché queste erogazioni (con relativa copertura previdenziale e assistenziale) non dovrebbero essere recuperate; in caso contrario costituirebbero un indebito arricchimento, al pari delle eventuali retribuzioni percepite in un nuovo impiego dal lavoratore in attesa di giustizia.
Inoltre, su di una questione analoga è intervenuta di recente la Consulta con la sentenza n. 8 dell’anno in corso. Il Tribunale di Lecce, aveva sollevato la questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2033 del codice civile, «nella parte in cui non prevede l’irripetibilità dell’indebito previdenziale non pensionistico (indennità di disoccupazione, nel caso di specie) laddove le somme siano state percepite in buona fede e la condotta dell’ente erogatore abbia ingenerato [un] legittimo affidamento del percettore circa la spettanza della somma percepita». Secondo il tribunale nel caso di specie (la ripetibilità da parte dell’Inps, di somme versate in eccesso a titolo di indennità di disoccupazione), sarebbero sussistiti tutti gli indici con cui la giurisprudenza convenzionale concretizza la lesione di un affidamento legittimo: il reiterarsi delle erogazioni indebite; la richiesta di restituzione dopo un periodo di tempo prolungato (nel caso di specie erano trascorsi più di otto anni); la buona fede soggettiva dell’accipiens al momento della percezione delle somme non dovute; l’insussistenza di un mero errore materiale o di calcolo; la mancata previsione di una riserva di ripetizione all’atto del pagamento da parte dell’ente. Su tali basi, il rimettente aveva sollecitato la Corte all’adozione di una sentenza additiva, che dichiarasse l’illegittimità costituzionale dell’art. 2033 cod. civ. nei termini sopra enunciati. Ma la Consulta, con la sentenza citata, aveva respinto il ricorso, ritenendo non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate.
Nell’illustrare le motivazioni la Corte si sofferma anche sulla questione della inesigibilità in relazioni alle condizioni personali del debitore: “Il rilievo che possono assumere le circostanze concrete – è scritto accipiens – e, in particolare, la considerazione delle condizioni personali del debitore hanno poi indotto gli interpreti a valorizzare anche forme ulteriori di inesigibilità, sia temporanea sia parziale, della prestazione. L’inesigibilità, in tal modo, attenua la rigidità dell’obbligazione restitutoria che, in quanto obbligazione pecuniaria, non vede operare – per comune insegnamento – la causa estintiva costituita dall’impossibilità della prestazione. In particolare, l’inesigibilità non colpisce la fonte dell’obbligazione, ma funge da causa esimente del debitore, quando l’esercizio della pretesa creditoria, entrando in conflitto con un interesse di valore preminente, si traduce in un abuso del diritto”. La Corte, poi, individua anche una via d’uscita in grado di contemperare i differenti interessi. “Particolari situazioni personali del debitore possono immediatamente palesare un impatto lesivo della prestazione restitutoria sulle condizioni di vita dello stesso, sì da giustificare un’inesigibilità temporanea. Più in particolare – prosegue la sentenza – il bilanciamento degli interessi implicati potrebbe far risultare giustificata la temporanea inesigibilità della prestazione, con la conseguenza che il ritardo nell’adempimento non potrebbe legittimare una pretesa risarcitoria da parte del creditore. Talora poi le condizioni personali del debitore, ove correlate a diritti inviolabili, potrebbero far ritenere al giudice definitivamente giustificato anche un adempimento parziale, che solo in casi limite potrebbe approssimarsi alla totalità dell’importo dovuto”. In sostanza, una soluzione equa può scaturire anche nell’ambito del diritto, senza dover sconfinare in un generico buonismo.
Membro del Comitato scientifico ADAPT