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Bollettino ADAPT 13 febbraio 2023, n. 6
Durante gli ultimi anni, la riflessione accademica e istituzionale al livello dell’Unione Europea e non solo si sta concentrando sempre più spesso sulla tematica dell’impatto delle c.d. “tecnologie di quarta generazione” – ossia, quelle fondate sull’uso di sistemi quali l’intelligenza artificiale, il machine learning, o i Big Data – sul rapporto di lavoro.
La raccolta e l’utilizzo di ampi quantitativi di dati prodotti durante l’esecuzione della prestazione lavorativa acquista una rilevanza sempre maggiore per l’esercizio delle prerogative datoriali, soprattutto in termini di definizione di pratiche organizzative e di Human Resource Management (c.d. “people analytics”), con evidenti conseguenze sulle condizioni di lavoro e sul generale trattamento dei lavoratori.
Il recente paper di A. Bernhardt, L. Kresge, e R. Suleiman, pubblicato sulla Industrial and Labor Relations Review della Cornell University (The data-driven workplace and the case for worker technology rights, ILR Review, 2023, n. 76, pp. 3-29) fornisce una panoramica generale per quanto concerne il fenomeno all’interno del contesto statunitense.
Gli AA. aprono il contributo specificando che l’analisi dei dati applicata ai processi di lavoro non è una novità; ad esempio, il c.d. “scientific management”, cardine del taylorismo, ha costituito un elemento fondamentale del processo di industrializzazione di massa. L’elemento che caratterizza maggiormente il contesto odierno è quello per cui i datori di lavoro oggi sviluppano nuovi modelli di business, metodi di controllo dei lavoratori e di gestione della produttività utilizzando sistemi digitali molto più potenti rispetto al passato, che hanno il potenziale per influire in modo sostanziale sull’attività dei lavoratori: le tecnologie basate sui dati possono infatti spaziare da quelle più banali, come i sistemi di elaborazione delle paghe e di scansione dei curriculum vitae, ad altre incredibilmente complesse, come ad esempio il rilevamento delle attività tramite computer vision (p. 5).
Nello specifico, gli AA. si concentrano su tre importanti applicazioni delle tecnologie digitali sul posto di lavoro che sono attualmente al centro del dibattito scientifico e legislativo negli Stati Uniti, ossia la raccolta dei dati dei lavoratori, il monitoraggio elettronico e il management algoritmico – le quali, sebbene indicanti tre concetti differenti, nella pratica sono spesso integrate in un unico sistema tecnologico.
La raccolta dei dati dei lavoratori risulta spesso utilizzata nel contesto delle pratiche HR e per l’esercizio dei tipici poteri datoriali/manageriali, come ad esempio la valutazione delle prestazioni e delle competenze, il monitoraggio delle presenze etc; il monitoraggio elettronico è una specifica forma di raccolta dei dati che comporta un monitoraggio esteso, spesso svolto in tempo reale, dei comportamenti e delle azioni dei lavoratori, diventato più frequente con l’avvento delle tecnologie di raccolta dati passiva, come ad esempio i sensori incorporati nelle attrezzature di lavoro e i c.d. “wearables”, in grado di acquisire un’ampia gamma di dati sulla posizione del lavoratore, le sue attività e le interazioni con i colleghi; il management algoritmico, infine, è utilizzato dai datori di lavoro per funzioni quali la programmazione delle attività, il coordinamento e la direzione delle attività dei propri dipendenti, sfruttando i più recenti progressi nella ricerca sull’intelligenza artificiale, i quali hanno portato alla creazione di algoritmi molto complessi che permettono ai sistemi informatici di imparare, ragionare e interagire con gli esseri umani nel loro ambiente (p. 7).
Nel contributo sono poi elencati diversi possibili impatti negativi per i lavoratori derivanti dalle pratiche menzionate, i quali si estendono ben oltre la mera tutela dei loro dati personali. Alcuni di questi derivano da decisioni legate alla stessa progettazione delle tecnologie digitali (per esempio, per quanto riguarda la creazione degli algoritmi) ma spesso derivano dalle decisioni dei datori di lavoro su come utilizzarle, ad esempio quando e perché utilizzare il monitoraggio elettronico, quali decisioni manageriali automatizzare, con quali parametri di produttività valutare i lavoratori (p. 8). Tali impatti possono essere classificati nelle seguenti categorie (pp. 9-14):
– Intensificazione del lavoro e conseguente impatto sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori, dovuta al monitoraggio elettronico minuzioso sulle loro attività e la spinta incessante a raggiungere una maggiore produttività;
– Dequalificazione e perdita di posti di lavoro: al fine di aumentare l’efficienza del lavoro e la produttività aziendale, i datori di lavoro possono utilizzare le tecnologie data-driven per routinizzare i lavori e suddividerli in compiti semplificati e ripetitivi. La standardizzazione delle attività lavorative può inoltre anche portare all’automazione parziale o totale del lavoro, in quanto i dati sulle attività dei lavoratori raccolte in tempo reale possono essere utilizzati per addestrare robot o algoritmi che eventualmente subentreranno loro;
– Discriminazioni: ad oggi, il danno maggiormente documentato derivante dalle tecnologie data-driven sono le discriminazioni basate su razza, sesso, età, disabilità e altre categorie, in particolare dovute al design di software di assunzione utilizzati dai datori di lavoro per automatizzare parzialmente o totalmente il reclutamento, lo screening e la valutazione dei candidati al lavoro. Ad esempio, un algoritmo di assunzione potrebbe essere “addestrato” alla ricerca di candidati con caratteristiche simili agli attuali dipendenti di un’azienda, in questo modo, intenzionalmente o meno, riproducendone i dati demografici;
– Lavoro occasionale: man mano che le nuove tecnologie consentono un sempre più invasivo monitoraggio e controllo a distanza dei lavoratori, per i datori di lavoro diventa più agevole esternalizzare il lavoro ad agenzie per il lavoro o a piattaforme digitali – il che aumenta la possibilità di classificare erroneamente lavoratori subordinati come lavoratori autonomi;
– Soppressione del diritto di organizzazione sindacale: le tecnologie di sorveglianza potrebbero essere usate per identificare i lavoratori che cercano di sindacalizzare i propri colleghi; gli AA. segnalano l’attuale presenza in commercio di algoritmi c.d. “predittivi” in grado di individuare i lavoratori che potrebbero tentare farlo in futuro, tramite l’analisi dei loro profili social;
– Perdita della privacy: questo tipo di sorveglianza invasiva potrebbe (anche inavvertitamente) rivelare informazioni sui lavoratori (ad esempio, la loro religione o la loro sessualità) di natura privata e non attinente alla loro attitudine professionale;
– Perdita di autonomia e dignità dei lavoratori: gli AA. segnalano come i datori di lavoro possano utilizzare le tecnologie basate sui dati per gestire a livello micro (micro-manage) e monitorare tutte le attività dei lavoratori, togliendo loro ogni margine di discrezionalità nello svolgimento della prestazione – quando invece i lavoratori meriterebbero di avere un ruolo attivo nella risoluzione dei problemi, nell’innovazione delle best practice e nell’apprendimento di nuove competenze;
– Effetti a valle sui salari e sulla mobilità economica: rientrano in questa categoria i casi in cui un candidato ad una posizione lavorativa viene ingiustamente scartato da un sistema di assunzione automatizzato, ma anche in cui una prestazione viene de-qualificata e routinizzata dalle tecnologie – retribuita quindi con un salario minore. Allo stesso modo, i sistemi di management algoritmico possono “consigliare” un datore di lavoro in merito agli avanzamenti di carriera di un lavoratore, in modo da influenzarne la mobilità.
Sul piano regolatorio, gli AA. affermano come la “pietra angolare” del governo delle tecnologie sul posto di lavoro debba essere costituita da leggi e regolamenti, nonché dai contratti collettivi (aziendali) stipulati nei luoghi di lavoro sindacalizzati. Tuttavia, attualmente negli Stati Uniti i datori di lavoro stanno introducendo tecnologie data-driven nell’assenza quasi totale di regolamentazioni legislative o collettive – in questo senso, gli AA. sottolineano come gli Stati Uniti siano particolarmente in ritardo in questo campo, specie se confrontati alle norme in vigore nell’Unione Europea (es. il GDPR) (p. 15).
In particolare, viene segnalato come negli Stati Uniti siano state approvate solo poche leggi in materia di tutela dei dati personali, soltanto a livello statale e prevalentemente dirette alla tutela dei consumatori. Solo di recente sono state presentate diverse proposte di legge sulla privacy a livello federale, ma i tempi di approvazione sono molto incerti.
Tuttavia, gli AA. sostengono come la regolazione delle tecnologie digitali debba essere incorporata in primo luogo nel diritto del lavoro, poiché le leggi a tutela dei consumatori non sono sufficienti a tutelare pienamente i lavoratori: le stesse, infatti, sono in gran parte incentrate sulla tutela dei dati personali e, come descritto in precedenza, i rischi per i lavoratori dovuti alle nuove tecnologie vanno ben oltre la tutela della privacy, comprendendo l’impatto sui salari, la salute e la sicurezza, le condizioni di lavoro, la stabilità del posto di lavoro e la necessità di evitare discriminazioni fondate sull’etnia o sul genere (p. 17).
In ultimo, tuttavia, gli AA. ribadiscono come i diritti e le tutele al livello legale, tuttavia, non siano sufficienti a garantire che la tecnologia vada a beneficio dei lavoratori, anziché danneggiarli. Per esempio, i lavoratori dovrebbero ricevere la formazione necessaria per contribuire al meglio alle decisioni su quali tecnologie vengono utilizzate sul posto di lavoro e come vengono condivisi i guadagni di produttività che ne derivano.
Questa partecipazione, si specifica, non deve essere necessariamente diretta ad ostacolare l’innovazione tecnologica: i lavoratori hanno un patrimonio di conoscenze ed esperienze da portare e da mettere a disposizione, al fine di evitare un uso delle tecnologie data-driven fondato sulla disumanizzazione e la totale automazione del lavoro. Creando forti tutele per i lavoratori, a parere degli AA. le nuove tecnologie possono essere messe al servizio della creazione di un’economia sì vivace e produttiva, ma anche equa e sostenibile (p. 22-23).
Il contributo sintetizzato risulta particolarmente illuminante per quanto concerne l’elencazione delle possibili problematiche che possono sorgere dall’applicazione delle tecnologie data-driven sul posto di lavoro, esulanti dal tema della protezione dei dati personali: benché concentrato sul contesto statunitense, il contributo può infatti servire da spunto anche per eventuali analisi da svolgere nel contesto italiano, “anticipando” tematiche non sono ancora esplorate a fondo dalla letteratura scientifica nazionale.
Fondamentale infine l’argomentazione secondo la quale le tutele legislative sono necessarie, ma non sufficienti a garantire un uso equo delle tecnologie di ultima generazione, dovendo queste essere accompagnate anche da alcune presupposti extra-legali come un’adeguata formazione dei lavoratori.
La stessa argomentazione è peraltro posta alla base del progetto europeo “GDPiR – Managing Data Processing in the Workplace through Industrial Relations” (n. 101048690) coordinato da FIM-CISL e a cui ADAPT partecipa come partner scientifico.
Fornendo a sindacalisti e rappresentanti dei lavoratori adeguata informazione e formazione specialistica in materia di Big Data e intelligenza artificiale, si intende facilitarli nella gestione delle dinamiche connesse al trattamento dei dati nei luoghi di lavoro e di migliorare, così, le iniziative di dialogo sociale e contrattazione collettiva sul tema.
Diletta Porcheddu
Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Siena