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Bollettino ADAPT 3 aprile 2023, n. 13
Le recenti inchieste della magistratura e della guardia di finanza sulla logistica hanno messo sotto i riflettori della opinione pubblica prassi da tempo note agli addetti ai lavori. Prassi che hanno ingenerato, nel tempo, una deleteria competizione al ribasso.
Le accuse sono varie. Si va dall’uso di fatture emesse per operazioni giuridicamente inesistenti alla stipula di contratti d’appalto e subappalto fittizi fino ad arrivare, in alcuni casi, a ipotizzare il reato di caporalato e sfruttamento dei lavoratori. Accuse spesso avanzate non solo a causa di una non corretta gestione del rapporto di lavoro (dal versamento della retribuzione e contribuzione dei lavoratori coinvolti nelle attività in appalto alla gestione delle trasferte) bensì anche a fronte di una spiccata dipendenza dell’appaltatore (e dei relativi lavoratori) rispetto al committente, con mancanza pressoché totale di quella autonomia organizzativa tipica di un genuino contratto di appalto.
Ed invero, la soluzione non sembra doversi ricercare necessariamente nella eliminazione totale dei contratti di appalto e subappalto, preferendo assunzioni dirette (non sempre in linea con le scelte imprenditoriali) o ricorrendo allo staff leasing (tuttora vietato – sebbene si tratti di un divieto di dubbia legittimità – all’interno del CCNL per il settore Logistica, Trasporto merci e Spedizione sottoscritto da Assologistica, Filt-Cgil, Fit-Cisl e Uiltrasporti).
Se, infatti, accorciare la filiera delle esternalizzazioni può aiutare in una gestione più controllata e dunque responsabile del committente, è tuttavia opportuno mettere in luce alcune riflessioni.
In primo luogo, il ricorso ai contratti di appalto non è, di per sé, sinonimo di sfruttamento del lavoro. Al fine di una corretta gestione dello strumento, è infatti opportuno saper riconoscere (e distinguere) un contratto di appalto genuino da un rapporto che maschera una somministrazione di manodopera. Ed invero, nonostante i noti riferimenti normativi (dall’art. 1665 c.c. ss. all’art. 29, d.lgs. n. 276/2003) e le numerose pronunce giurisprudenziali dirette ad individuare i principali indici di genuinità di un appalto (cfr. tra le tante, Cass. 20 giugno 2018, n. 16259; Cass. 13 febbraio 2020, n. 3631; Cass. 27 ottobre 2020, n. 23615; Cass. 27 gennaio 2021, n. 1754), si riscontra spesso una mancanza totale (o quasi) di conoscenza e cultura dell’argomento in coloro che ricorrono all’utilizzo dell’appalto. Se infatti, da un lato, è imprescindibile che l’appaltatore abbia una autonoma organizzazione in termini di mezzi e capitale umano nonché un rischio di impresa a suo carico, dall’altro lato è necessario che tali elementi di genuinità siano riscontrabili, caso per caso, nel concreto svolgimento delle attività appaltate.
Diversamente, se volessimo ritenere che i contratti di appalto, a prescindere dalla presenza degli indici di genuinità e della loro attuazione, mascherano sempre modelli di lavoro contra legem, l’unica soluzione auspicabile sarebbe allora un intervento legislativo diretto a vietare gli appalti (quantomeno in alcuni settori). Tale soluzione, tuttavia, comporterebbe una grave de-responsabilizzazione non solo delle aziende, che sarebbero altresì limitate nelle proprie scelte imprenditoriali, ma anche delle parti sociali, le quali ad oggi spesso regolamentano il ricorso ai contratti di appalto e subappalto all’interno del CCNL, sebbene non sempre in modo efficace. È il caso, ad esempio, del CCNL per il settore Logistica, Trasporto merci e Spedizione richiamato sopra che, all’art. 42, non solo impone l’applicazione dello stesso CCNL in caso di appalto ma prevede altresì il divieto di subappaltare le attività di “logistica, facchinaggio, movimentazione, magazzinaggio delle merci”. Un divieto spesso non rispettato dagli operatori del mercato.
Ed è in questa prospettiva che rileva, ancora una volta, il ruolo delle commissioni di certificazione, le quali, si ricorda, sono chiamate, ai sensi dell’art. 84, d.lgs. n. 276/2003, non certo a validare formalismi giuridici astratti come purtroppo avviene spesso nella prassi bensì a distinguere concretamente un contratto di appalto da una somministrazione di manodopera. Ai fini della qualificazione del rapporto e della corretta certificazione del contratto, l’impegno delle commissioni di certificazione dovrebbe allora concentrarsi su una indagine effettiva e sostanziale degli indici di genuinità di un contratto di appalto nonché sugli aspetti di natura contrattual-collettiva (tra cui, nel caso di specie, il rispetto dell’art. 42, CCNL per il settore Logistica, Trasporto merci e Spedizione). Dallo screening delle realtà sottoposte al proprio vaglio alla messa in atto di vere e proprie modifiche ai modelli organizzativi, processi di esternalizzazione e di lavoro con l’obiettivo di riportare le dinamiche oggetto di analisi nel perimetro della legalità, partendo dalla sostanza e certificando solo in una fase successiva il mero documento contrattuale (un pezzo di carta che solitamente rappresenta soltanto la punta dell’iceberg).
Solo così, soggetti terzi e imparziali come le commissioni di certificazione che, con il proprio lavoro, hanno il potere di produrre effetti tra le parti e verso i terzi (comprese le Autorità ispettive), potrebbero essere in grado di garantire con la forma processi attenti alla sostanza accompagnando le imprese in percorsi virtuosi di uscita da questa fase “patologica” per inaugurare una nuova stagione del settore.
Giada Benincasa
Assegnista presso il Dipartimento di Economia Marco Biagi
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia