Politically (in)correct – Settimana corta o weekend lungo?

Bollettino ADAPT 12 aprile 2023, n. 14

 

I tempi cambiano. Una volta si diceva “lavorare meno per lavorare tutti”. Quando i metalmeccanici posero con forza la questione della riduzione dell’oraria settimanale di lavoro di 40 ore settimanali nel contratto del 1969 normalmente su cinque giornate lavorative, l’orario legale era ancora di 48 ore, ma quello contrattuale variava nei diversi settori: da 42 ore nell’auto fino a 44 ore nella navalmeccanica. Nel contratto venne previsto che tutti i settori arrivassero alle 40 ore entro la scadenza, anche se l’ultima tranche nella navalmeccanica scattò in zona Cesarini. Da allora la politica degli orari ha subito, nella contrattazione collettiva, ulteriori riduzioni, sia in termini generali e attraverso misure di saturazione degli impianti, attraverso la contrattazione aziendale e il lavoro su più turni, dissociando in questo modo la durata dell’orario della produzione dell’impresa o di reparti di essa da quello individuale, spesso con una calendarizzazione orientata a tener conto dei picchi e dei flessi, non solo nelle produzioni  di carattere stagionale, ma anche nel caso di picchi produttivi transitori legati a particolari  commesse, laddove non si ritenga di fare ricorso alla somministrazione, alle assunzioni a termine o più banalmente al lavoro straordinario (sia pure all’interno di massimali giornalieri, settimanali e annui).

 

Una maggiore possibilità di un uso flessibile della manodopera ha contribuito a ridimensionare ulteriormente il vecchio assunto dell’autunno caldo, anche quando furono adottate a scatola chiusa mode provenienti dall’estero. È il caso, ad esempio, delle 35 ore settimanali, stabilite in Francia, ai tempi della presidenza del socialista Lionel Jospin, da due leggi nel 1998 e nel 2000, per entrare definitivamente in vigore due anni dopo. Per quanto riguarda gli effetti di questa misura – modificata da Emmanuel Macron durante il suo primo mandato – sull’economia nel suo complesso è in atto da anni un dibattito divisivo per quanto riguarda sia la creazione di posti di lavoro, sia gli incrementi del costo del lavoro e delle sue conseguenze sull’occupazione. In pratica la drastica riduzione d’orario laddove è stata applicata ha finito per trasformare in lavoro straordinario le ore lavorate oltre le 35 settimanali, ma non a ridurre gli orari di fatto.

 

Nessun altro paese OCSE ha attuato una politica di riduzione generalizzata dell’orario di lavoro. Tuttavia, in Germania, un paese in cui l’orario di lavoro rientra nei contratti collettivi di ciascun ramo professionale (entro il limite di 48 ore settimanali in media imposto dalla legge), sono stati negoziati anche accordi di riduzione dell’orario di lavoro dai partner, filiali con un orario di lavoro di 35 ore settimanali. Anche in Italia il mito delle 35 ore ebbe un momento di gloria, fino al punto di affondare il primo governo Prodi per iniziativa del PRC di Fausto Bertinotti. Poi, da noi, la normativa dell’orario di lavoro è stata innovata dalla legge n. 66 del 2003 nella quale, senza mettere in discussione le classiche 40 ore, si consente ai contratti collettivi di stabilire, ai fini contrattuali, una durata minore e riferire l’orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all’anno (c.d. orario multiperiodale).
 

Da qualche mese il fantasma della riduzione dell’orario a parità di salario è tornato a circolare per l’Europa sotto specie di settimana lavorativa di 34 ore. Sotto questa etichetta si raccolgono parecchie variabili che tentano di rispondere ad esigenze diverse. In primo luogo le differenze riguardano le modalità di attuazione del nuovo calendario. In talune esperienze si tratta solamente di una redistribuzione del normale orario di lavoro su 4 giorni anziché su 5 (giornata più lunga in cambio di settimana più corta). Sembra che l’esito finale sia un weekend più lungo e che la maggiore occupazione, così, la si realizzi nel turismo e nei relativi servizi. Così al decongestionamento delle città corrisponderebbe un maggiore traffico nelle autostrade. Questa sarebbe una forma di riduzione d’orario un po’ primitiva e non generalizzabile laddove sono in funzione cicli continui. Si direbbe piuttosto una misura a favore del personale amministrativo, che pure è in crescita, ma non fa girare le macchine automatiche negli opifici.

 

Più che una risposta all’obiettivo del pieno impiego (che in Europa è sempre più un problema che riguarda l’offerta di lavoro) sembra rientrare nel nuovo atteggiamento che i lavoratori manifestano verso il valore/lavoro dopo la pandemia, l’uso dello smart working e quant’altro. Non più quindi “lavorare meno, per lavorare tutti”, ma “lavorare meno per lavorare, e vivere, meglio”. Come sempre succede che con le mode vi è sempre qualcuno che cerca di riciclare vecchi modelli. Lo si capisce dalle dichiarazioni del leader della Cgil, Maurizio Landini: “Di fronte alla rivoluzione tecnologica, che porta ad un aumento di profitti e produttività, si deve praticare la ridistribuzione della ricchezza e di come viene accumulata, anche attraverso la riduzione dei tempi di lavoro”, E come? “Contrattando modelli organizzativi su quattro giorni di lavoro settimanali e per le imprese la possibilità di utilizzare gli impianti sino a sei giorni la settimana. Il tutto, prevedendo il diritto alla formazione e all’aggiornamento per tutta la vita lavorativa”. Sembra evidente che l’operazione dovrebbe avvenire a parità di salario; che vi sarebbe una dissociazione tra l’orario dell’azienda e quello individuale e che la contrattazione delle modalità e dell’organizzazione del lavoro dovrebbero consentire una maggiore utilizzazione degli impianti.

 

Basta valutare quanto sta avvenendo in altri Paesi  (in Islanda e UK e più recentemente in Spagna, Scozia, Nuova Zelanda e Portogallo) – che hanno sperimentato la settimana lavorativa di 4 giorni – per rendersi conto che – nonostante gli ululati di soddisfazione –  siamo di fronte a casi di nicchia (con un numero limitato di lavoratori interessati), destinati a restare tali per molto tempo ancora nel tentativo di trovare una strategia che possa conciliare il lavoro e l’occupazione con le trasformazioni tecnologiche in atto e che si annunciano. Proprio perché i grandi soggetti collettivi non si sono ancora resi conto di come affrontare gli effetti della introduzione di nuove tecnologie, si attaccano a tutte le possibili soluzioni che appaiono all’orizzonte, rischiando di scambiare per farmaci salvavita gli sciroppi per la tosse. In Italia le aziende che hanno già sperimentato l’accorciamento della settimana lavorativa dichiarano risultati positivi e anche alcune grandissime aziende stanno lanciando sperimentazioni. Tra queste ultime troviamo ad esempio Intesa Sanpaolo che da gennaio ha proposto su base volontaria un nuovo modello di organizzazione del lavoro, con la possibilità di lavorare 4 giorni a settimana, invece che 5, ma aumentando a 9 le ore giornaliere. In sostanza: settimana corta, weekend lungo.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

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