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Bollettino ADAPT 26 aprile 2023, n. 16
Pare oramai imminente l’approvazione, in Consiglio dei Ministri, del c.d. «decreto-lavoro» i cui contenuti sono stati ampiamente anticipati dalla stampa, non solo quella, specializzata, per poi essere divulgato (qui una “bozza”) ben prima della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale attesa per i prossimi giorni. La data prescelta, come lasciano intendere fonti ufficiali, dovrebbe essere il 1° maggio con una forse indebita appropriazione, da parte della politica, di una festa, quella dei lavoratori, che non dovrebbe essere oggetto di strategie comunicative ad effetto e, tanto meno, di strumentalizzazioni.
Tra le numerose disposizioni in esso contenute (parliamo, alla faccia della semplificazione, di un testo di oltre 40 articoli e oltre 150 commi) si segnala, indubbiamente, la nuova disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato anche per la sua valenza simbolica, che fa il paio con la cancellazione del reddito di cittadinanza, nella direzione di un superamento dei limiti contenuti nel «decreto dignità» varato nel 2018.
Non c’è stato il ritorno alla situazione scaturita con il Jobs Act, pure da più parti auspicata, con un radicale superamento delle causali di utilizzo. L’intenzione, se mai, è quella di rendere più agevole il ricorso alle causali di utilizzo dei contratti a tempo passando da un regime rigido di causali (per taluni un regime “impossibile”) a un regime decisamente più morbido e flessibile.
Fermo restando che al contratto di lavoro subordinato potrà sempre «essere apposto un termine di durata non superiore a dodici mesi» (art. 19, comma, 1, decreto legislativo n. 81 del 2015), una durata superiore, anche tramite proroghe, ma comunque non eccedente i ventiquattro mesi, come anche per i casi di rinnovo, sarà ammissibile per «esigenze di sostituzione di altri lavoratori», nonché nei casi previsti dalla contrattazione collettiva qualificata (quella di cui all’art. 51 del decreto legislativo n. 81/2015), chiamata ora a individuare, a qualunque livello, «specifiche esigenze» che presumibilmente, e in coerenza con gli orientamenti della magistratura, dovranno risultare di natura temporanea posto che, ai sensi dell’articolo 1 del decreto legislativo n. 81 del 2015, «il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro».
Una ipotesi quest’ultima che, per la sua specificità e formulazione, dovrebbe comportare anche l’assorbimento dello spazio di azione di eventuali intese di prossimità, specificative delle causali di legge, ex articolo 8 del decreto-legge 138 del 2011 convertito, con modifiche, in legge 148 del 2011 che, come mostra la prassi (si vedano i risultati di una mappatura svolta per il IX Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia, cap. III, § 3.1, in corso di pubblicazione) è stata una delle ipotesi di classico utilizzo della contrattazione in deroga (in tema si veda anche P. Pizzuti, Contratto a termine: nuove causali e vecchi dilemmi, in MGL, 2018, fascicolo unico, il quale ipotizza che la contrattazione di prossimità anziché specificare l’esigenza possa anche rimuovere la necessità di apporre una causale), sebbene siano ancora tutti da valutare i margini di manovra che permarranno per simili intese rispetto ad altre possibili deroghe sulla disciplina dei rapporti a termine, nei limiti dei vincoli costituzionali e della regolamentazione europea (in tema, per un atteggiamento restrittivo sulle intese di prossimità, vedi Tribunale di Teramo dell’8 febbraio 2023).
In assenza di contrattazione collettiva v’è poi una ulteriore possibilità di legittima apposizione del termine relativa a «specifiche esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva». Esigenze specifiche, in questo secondo caso, «individuate dalle parti», presumibilmente sempre entro i limiti della temporaneità della esigenza, previa la «certificazione delle stesse presso una delle commissioni di cui agli articolo 75 e seguenti del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276». Questo significa che non è dunque ammessa la loro certificazione in corso d’opera o ex post, come avviene per gli altri contratti.
Peraltro, risultando inalterato il rinvio operato dall’articolo 34, comma 2, del decreto legislativo n. 81 del 2015 in materia di somministrazione di lavoro a termine, le novità in via di approvazione impatteranno anche su questa non residuale fetta del mercato del lavoro, dovendo le parti verificare in concreto la sussistenza delle legittime causali di apposizione del termine in capo all’utilizzatore.
Valuteremo, nei prossimi mesi, l’impatto della riforma sulle dinamiche del mercato del lavoro (che registrano in questi mesi un positivo incremento della occupazione a tempo indeterminato) e le opinioni che emergeranno in materia (per un primo commento vedi l’autorevole opinione del professor Arturo Maresca, Contratti a termine: oltre il Decreto Dignità, in www.consulentidellavoro.tv, nell’ambito di un approfondimento curato dai consulenti del lavoro).
Merita tuttavia un rapido commento la possibilità di ricorrere alle sedi di certificazione in assenza di contrattazione collettiva che, a ben vedere, è l’unico elemento di vera novità introdotto dal «decreto lavoro» posto che già oggi l’articolo 19, comma 1, lett. b-bis), contempla la clausola delle «specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di cui all’articolo 51».
Chi scrive, come presidente di una commissione di certificazione dei contratti di lavoro e come curatore, dal 2012, di un rapporto sistematico sulla contrattazione collettiva che consente di conoscere con un certo grado di affidabilità lo stato dell’arte in materia, dovrebbe essere solo felice di questo rinvio. Le perplessità, tuttavia, non mancano come del resto avevamo recentemente evidenziato rispetto al delicato ruolo dei consulenti legali e delle sedi di certificazione per garantire uno sviluppo ordinato e virtuoso delle relazioni di lavoro nel nostro Paese (vedi M. Tiraboschi, Ruolo e responsabilità del consulente legale. Brevi riflessioni a proposito delle recenti notizie di cronaca relative a talune forme pervasive e sistematiche di sfruttamento del lavoro, in Bollettino ADAPT 3 aprile 2023, n. 13).
Invero v’è chi ha già sostenuto che, sui contratti a tempo, poco o nulla è destinato a cambiare rispetto alla situazione attuale, posto che il meccanismo della certificazione per nuovi contratti e per rinnovi sarebbe di fatto impraticabile a causa dei tempi lunghi e della burocrazia delle commissioni. La mia personale preoccupazione è, tuttavia, il contrario. Posto che non mancheranno sedi di certificazione pronte a riconoscere il “bollino” di qualità con mere operazioni di facciata, condotte cioè a tavolino senza poter verificare, nello specifico e come richiede la magistratura, la reale connessione tra il singolo contratto a termine stipulato o il singolo rinnovo e le specifiche esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva che legittimano l’apposizione del termine – una magistratura, come noto, per nulla incline a riconoscere legittimità a formule estremamente vaghe (rectius, “incomprensibili all’uomo comune”), praticamente impossibili da verificare in concreto (sul punto, si veda, da ultimo Cass. 31 gennaio 2023, n. 214) – e a riconoscere legittimità a esigenze che non rivestano il carattere della temporaneità (sul punto, si veda Trib. Firenze 26 settembre 2019, n. 794 e i diversi rinvii alla giurisprudenza euro-unitaria in materia, laddove si afferma che l’utilizzo del contratto di lavoro a tempo determinato per far fronte ad esigenze stabili e durevoli potrebbe comportare la configurazione di un abuso del diritto).
Insomma, una forzatura che rischia di accentuare l’uso strumentale delle commissioni di certificazione che sono nate con altri (e ben più nobili) intenti a sostegno di un giusto bilanciamento tra gli interessi contrattuali in gioco.
Vero è che le sedi ideali per compiere queste operazioni dovrebbero essere quelle istituite presso gli enti bilaterali e che, tuttavia, questa ipotesi è sì del tutto impraticabile per il rifiuto di parte del sindacato (quello genuino) di usare la bilateralità per governare attivamente (e non solo nelle regole contrattuali) il mercato del lavoro come suggerisce, con formula a mio avviso impareggiabile, l’articolo 2, comma 1, lett. h), del decreto legislativo n. 276 del 2003. È noto, per contro, come la bilateralità fittizia cerchi da tempo di insinuarsi su questo fronte che è centrale nei moderni mercati del lavoro (vedi Corte d’Appello de L’Aquila 5 luglio 2022, n. 1018, con nota di G. Benincasa, Sulla efficacia giuridica di una certificazione rilasciata da un organismo privo dei requisiti di legittimità, in corso di pubblicazione in Il Lavoro nella Giurisprudenza).
Per tutte le altre sedi di certificazione diverse da quelle ministeriali e delle direzioni territoriali del lavoro, che non rispondono alle rappresentanze datoriali e sindacali di riferimento, resta allora una prova di maturità e non solo di efficienza: quella di evitare nella prassi certificazioni puramente formali e anche pasticciate, per la fretta di rispondere alle istanze del committente, che finirebbe per pregiudicare definitivamente la già debole reputazione di questo importante istituto.
Analoga prova di maturità spetterà ovviamente ai committenti della certificazione posto che le soluzioni improvvisate e costruite a tavolino sono, a ben vedere, la vera fonte di quel contenzioso che l’istituto della certificazione, per espressa definizione legislativa, è chiamato ad arginare. Anche perché, a ben vedere, i problemi del contratto a termine così come di altri schemi contrattuali, non sta nelle leggi quanto nella abilità, tutta italiana, a stravolgerle nella prassi applicativa.
Sta di fatto che il c.d. «decreto-lavoro» non è ancora in Gazzetta Ufficiale ma già c’è chi promette certificazioni lampo, una o due settimane massimo. Se così stanno le cose, e dunque è sufficiente mettere un “bollino” di carta per verificare la sussistenza delle specifiche esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva, perché allora non fare tutto in un giorno. Tecnicamente non sarebbe una impresa impossibile e, anzi, sarebbe una grandiosa risposta a chi confonde lo scrupolo della valutazione dei contratti sottoposti a certificazione con una intollerabile attitudine alla burocrazia.
Il punto, se mai, è intendersi sulla funzione della certificazione e sulla utilità / serietà della relativa procedura, ma questo ovviamente è tutto un altro discorso che oggi non appassiona i più. Come sempre dovremo aspettare qualche sentenza della magistratura per avere conferma del fatto che, quando parliamo di rapporti di lavoro, le scorciatoie sono un po’ come le bugie: hanno sempre le gambe molto corte.
Michele Tiraboschi
Università di Modena e Reggio Emilia
Coordinatore scientifico ADAPT