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Bollettino ADAPT 22 maggio 2023, n. 19
Quando un rapporto di lavoro termina a pochi mesi dall’assunzione, spesso si pensa a un insuccesso del sistema di selezione. Tuttavia, in questi casi non bisogna sottovalutare il peso dell’Onboarding, ovvero la gestione da parte dell’azienda dell’inserimento delle nuove risorse: ricerche recenti dimostrano che un solido processo di Onboarding migliora la fidelizzazione dei neoassunti dell’82% e la produttività di oltre il 70% (Donald Tomaskovic-Devey Reyna Orellana, The Key to Retaining Young Workers? Better Onboarding, HBR, May 12, 2022).
Le pratiche che rientrano sotto questo processo sono svariate: da una chiara e ordinata condivisione della documentazione necessaria, alla consegna di un Welcome Kit, al tour aziendale e la presentazione dei colleghi. Ma per definire cosa effettivamente si intenda per Onboarding, è forse necessario fare un passo indietro e chiedersi perché queste attività, e con esse i primi mesi in una nuova organizzazione, siano diventati di una tale importanza.
Se infatti le prime pratiche di Onboarding risalgono agli anni Settanta, è nell’ultimo periodo che questo processo ha attirato maggiormente l’attenzione, diventando una pratica conosciuta anche in Italia. E, non a caso, è nello stesso periodo che abbiamo assistito alle Grandi Dimissioni e al Quiet Quitting, per non parlare del recentissimo QuitTok, segnali di una cambiata percezione del lavoro. Sarebbe dunque utile indagare se e in che termini tali fenomeni siano collegati con il rinnovato interesse per l’Onboarding.
Le tendenze sopra citate ci segnalano che le dimissioni non sono più un tabù, al contrario: il momento stesso della rassegna delle stesse può diventare un gesto di self-care, dove questa non è più interpretata come egoistica sottrazione al sacrificio o pigrizia, ma anzi come un elemento cruciale nella realizzazione personale. Le dimissioni così non sono necessariamente un passo indietro, un fallimento, anzi, spesse volte sono interpretate come un avanzamento -e, di conseguenza, come un momento da condividere.
Quindi, se un lavoro non dà spazio alle aspettative personali, dal desiderio di work-life balance a quello di un ruolo gratificante, in breve tempo si attiverà la ricerca di un’alternativa. L’ideale di stabilità cede così il posto a una ricerca poco lineare e imprevedibile di un’occupazione che vada incontro all’individuo, nell’apparentemente paradossale ricerca di un lavoro che potremmo definire customizzato.
In altre parole, sembra quasi che il lavoro sia diventato un’experience da proporre a un cliente – un bel contrappasso per il capitalismo. Ciò significa che le organizzazioni si trovano davanti a un nuovo cliente “interno”. E l’impegno verso questo cliente non si limita all’Employer Branding precedente la selezione, perché queste persone non vanno solo attratte, ma fidelizzate -termine ormai entrato a far parte del lessico dell’Onboarding.
L’Onboarding diventa dunque di centrale importanza perché sono i primi mesi quelli cruciali per la fidelizzazione e il corretto avviamento di un rapporto di lavoro o di collaborazione. E questo è il primo punto da tenere presente: l’Onboarding non si limita alla firma dei documenti di assunzione e alla consegna del materiale o all’organizzazione del primo giorno di lavoro, me deve invece essere inteso come un processo che accompagna il neoassunto nei primi mesi di inserimento nella nuova realtà, mantenendo un monitoraggio della sua esperienza, anche fino all’anno dall’assunzione. Infatti, secondo alcuni lo stesso termine “Onboarding” sarebbe forviante, dal momento che rimanderebbe al mero fatto di imbarcarsi, ignorando ciò che succede una volta “on board”, vale a dire l’integrazione vera e propria. Ma, al di là della terminologia, il problema è che i processi di Onboarding generalmente non sono chiari e ben definiti, né ne è compresa a pieno l’importanza.
In un tentativo di dare un ordine alle numerose attività in cui si può articolare questo processo, può risultare utile la suddivisione delle principali pratiche relative all’Onboarding in tre livelli con grado di complessità crescente.
– Orientamento basilare. Viene fornito il materiale base al neoassunto, sia in termini di strumenti che di informazioni: postazione, strumentazione informatica, documenti riguardanti le policy interne, la strategia e i risultati o report aziendali.
Il responsabile e i colleghi vengono avvisati del nuovo ingresso e invitati a creare un momento di presentazione del Team.
– Ingresso strutturato. Il neoassunto viene accolto con la consegna -a domicilio o di persona il primo giorno- del Welcome Kit. Questo ha una doppia finalità: da un lato esprime l’interesse e l’attenzione dell’azienda nei confronti del collaboratore, dall’altro si dovrebbe comporre di elementi rappresentativi della storia e dei valori dell’azienda, così da trasmettere un senso identitario.
L’organizzazione del primo giorno viene pensata per fornire una panoramica non solo del Team, ma dell’Organizzazione nella sua complessità, attraverso presentazioni e incontri che vadano a chiarire gli aspetti amministrativi e relativi alla sicurezza, che diano un’introduzione alla filosofia dell’azienda e che introducano ufficialmente il nuovo arrivato ai colleghi. Viene inoltre organizzato un tour dell’azienda, compresi i reparti con cui il neoassunto non avrà direttamente a che fare.
A seconda del ruolo in azienda, nei giorni seguenti sono organizzati diversi incontri con i colleghi, con le principali figure manageriali dell’organizzazione e con l’ufficio HR. Per figure particolarmente delicate, può anche essere richiesta una presentazione da parte del nuovo assunto sul suo background e metodo di lavoro, così da aprire un dialogo con i collaboratori ed evidenziare similarità e differenze tra i diversi approcci.
– Al nuovo assunto è assegnato un buddy aziendale, solitamente di età simile a quella del neoassunto ma con ruolo diverso, che si assuma il ruolo di mentor per i primi giorni, rispondendo ai dubbi in modo trasparente e informale.
– Monitoraggio e integrazione “diffusa”. Vengono organizzati momenti di feedback strutturati e bilaterali tra il neoassunto, il suo responsabile e i suoi colleghi.
Il processo di integrazione è monitorato anche dalla funzione HR con colloqui -solitamente dopo il primo mese, poi semestrali- sia con la persona inserita che con il suo responsabile per mediare eventuali difficoltà e strutturare un’esperienza “su misura”, per quanto possibile.
Quella qui riportata è una traccia molto generale, che varia in modo significativo a seconda dell’organizzazione e del ruolo in questione, ma che può dare un’idea della varietà di attività che possono essere messe in atto per trasmettere l’attenzione e la cura dell’organizzazione ai propri collaboratori.
In conclusione, per orientarsi tra la moltitudine di attività che vanno a formare la pratica dell’Onboarding, è utile tenere a mente quali siano le necessità e le contingenze a cui questo processo vuole rispondere, e soprattutto acquisire consapevolezza dell’importanza di investire nell’integrazione dei nuovi arrivati. Per fare ciò è necessario che le aspettative personali del neoassunto siano sempre tenute in conto, così come si farebbe per un cliente. Ciò non significa snaturare l’essenza di un ruolo per tenersi stretta una risorsa. Se effettivamente il collaboratore non era quello giusto, non si può imporre un’integrazione. Ma diverso è il caso in cui risorse potenzialmente valide vengono perse per un’eccessiva rigidità lato azienda.
L’Onboarding non si limita dunque a un aspetto meramente amministrativo o di forma, ma diventa il segno della volontà da parte dell’organizzazione di dare inizio a una comunicazione con il suo collaboratore e di dargli possibilità negoziazione. Ed è tale apertura verso i bisogni personali che si può fare la differenza nella fidelizzazione di nuova risorsa.
Sofia Milani
Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Siena
@MiSofistes