Bollettino ADAPT 29 maggio 2023, n. 20
Nel dna del sindacalismo – europeo e non solo – è possibile individuare un filone teorico (che non esitò – con scorso successo – a scendere in lizza) che tiene insieme l’azione tipicamente sindacale con quella politica, finalizzate – tramite lo sciopero generale – all’insurrezione rivoluzionaria. Senza perdersi nel reticolo delle ideologie partorite nel secolo del movimento operaio, ci pare che un aspetto fondamentale, nelle origini, stia nella differenza tra il pensiero comunista e quella del socialismo massimalista. Per il primo (“Noi faremo come la Russia”) la rivoluzione era l’opera di un’avanguardia selezionata e compatta, capace di egemonizzare un grande movimento e condurlo verso gli obiettivi del cambiamento. Per il socialismo massimalista le protagoniste restavano le masse proletarie che non agivano allo scoccare di un’ora X, ma attraverso il transfert di un grande sciopero (violento, se necessario) che provocasse il crollo del capitalismo e consegnasse il potere al popolo. Anzi, la scissione di Livorno del 1921 nacque proprio da una valutazione critica dell’inconcludenza del socialismo massimalista, le cui responsabilità furono importanti nello spalancare le porte al fascismo. Ma non è questa la sede per rivisitare la storia del movimento operaio. Ci siamo permessi un breve volo pindarico dopo aver letto la sintesi del discorso di Maurizio Landini al Congresso della Confederazione europea dei sindacati, svoltosi nei giorni scorsi a Berlino. Landini ha rinverdito i canoni del sindacalismo massimalista/rivoluzionario, affidando però l’azione della palingenesi non già allo sciopero ma alla “mobilitazione”, anch’essa rivoluzionaria, perché rivolta. ad “affermare in Europa un nuovo modello di sviluppo che dia reali opportunità ai giovani, cancelli le differenze salariali tra uomini e donne, che includa e non lasci indietro nessuno”.
Ci fu un tempo in cui questo nuovo modello di sviluppo veniva definito “socialismo”. Mia nonna materna – una ex bracciante – mi diceva sempre da bambino che, da grande, avrei visto nascere il socialismo. Per mia fortuna la nonna è stata una cattiva profeta. Ma almeno lei aveva una idea precisa di che cosa parlava. Quelli che oggi si limitano a raccontare che “un altro mondo è possibile” non sono mai riusciti a indicare percorsi e modelli non solo migliori, ma credibili. Niccolò Machiavelli invitava a non soffermarsi su “principati che non esistono”. Ma perché – risponderebbero le “anime belle” – sforzarsi di analizzare la realtà quando è tanto facile e gratificante inventarsela? Oppure osservarne solo la parte che fa comodo? È quanto emerge da una intervista del segretario della Cgil ad un quotidiano nazionale. Un Paese allo sbando, dunque: “Più di 120 mila giovani ogni anno lasciano l’Italia. Oltre 6 milioni di persone sono povere lavorando perché non arrivano a 10 mila euro annui. La sanità – ha continuato Landini – è al collasso e tante persone rinunciano a curarsi o devono pagare per farlo. Crescono le disuguaglianze e il Reddito di cittadinanza viene dimezzato. Per la prima volta in quarant’anni calano i consumi. Abbiamo il record di giovani Neet che non studiano o lavorano. Il tasso di occupazione tra i più bassi d’Europa e il più alto debito pubblico. Crescono solo i profitti e gli extraprofitti. La maggioranza del Paese non si è accorta che l’economia va meglio”. Ecco perché ha detto a Berlino: “Dopo le straordinarie manifestazioni di maggio, andremo avanti con ancora più forza e convinzione perché le nostre rivendicazioni ora vivono nella mobilitazione del movimento dei lavoratori che ha superato i confini nazionali”.
Così la Cgil canta vittoria perché, al XV congresso della CES, tutti i sindacati europei, tutte le federazioni europee di categoria e l’intero gruppo dirigente appena eletto hanno condiviso la proposta della Confederazione di Corso Italia di avviare un grande percorso di mobilitazione europea. “Al centro della mobilitazione – ha spiegato il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini – il contrasto al ritorno dell’austerità; il lavoro sicuro e dignitoso, e quindi la lotta alla precarietà; l’aumento dei salari e delle pensioni, un fisco equo che redistribuisca i profitti; la difesa dei servizi per garantire in primis i diritti alla salute e all’istruzione pubblica”. “Affinché non siano i lavoratori a pagare nuovamente il prezzo di questa ennesima crisi – ha proseguito il sindacalista – abbiamo proposto all’intero movimento sindacale europeo di mobilitarsi su questi temi fin da subito, a partire da giugno, in ognuno dei nostri Paesi, nei modi e nelle forme che decideremo nazionalmente, per arrivare ad un grande momento comune in autunno”. Ma se il catastrofismo di Landini fosse tutto ciò che passa il convento, la prima domanda da fare riguarda proprio il sindacato. Se dovesse ridursi ad un gruppo di pressione nei confronti dei governi agitando parole d’ordine general/generiche, farebbe meglio a chiudere bottega. Anche perché certi discorsi fanno venire in mente il caso di quel venditore di auto usate che denunciava ai possibili clienti i difetti dei suoi prodotti. Siamo in presenza di un vero e proprio stravolgimento di quella che una volta si chiamava propaganda e che oggi è divenuta comunicazione. Non si cerca più di valorizzare il ruolo di un sindacato in un contesto difficile, mettendo in evidenza anche gli elementi positivi. Per far saltare in aria il baraccone si accetta di rimanere sotto le macerie.
Ci limitiamo a segnalare a Landini, sulla base del report di aprile sul deposito dei contratti, le caratteristiche degli 8.691 contratti attivi. Di questi 6.743 si propongono di raggiungere obiettivi di produttività, 5.129 di redditività, 4.478 di qualità, mentre 990 prevedono un piano di partecipazione e 5.225 prevedono misure di welfare aziendale. Da quando è entrato in vigore l’obbligo le aziende hanno effettuato il deposito di 81.414 contratti: il 77% è concentrato al Nord, il 17% al Centro il 6% al Sud. Un’analisi per settore di attività economica evidenzia come il 58% dei contratti depositati si riferisca ai Servizi, il 41% all’Industria e il 1% all’Agricoltura. Se invece ci si sofferma sulla dimensione aziendale otteniamo che il 52% ha un numero di dipendenti inferiore a 50, il 33% ha un numero di dipendenti maggiore/uguale di 100 e il 15% ha un numero di dipendenti compreso fra 50 e 99. Per gli 8.691 depositi che si riferiscono a contratti tuttora attivi la distribuzione geografica è la seguente: 71% Nord, 18% Centro, 11% al Sud. Per settore di attività economica abbiamo 60% Servizi, 39% Industria, 1% Agricoltura. Per dimensione aziendale otteniamo 43% con numero di dipendenti inferiore a 50, 41% con numero di dipendenti maggiore/ uguale di 100, 16% con numero di dipendenti compreso fra 50 e 99. Analizzando i depositi che si riferiscono a contratti tuttora attivi abbiamo che il numero di Lavoratori Beneficiari indicato è pari a 2.876.696, di cui 1.825.596 riferiti a contratti aziendali e 1.051.100 a contratti territoriali. Il valore annuo medio del premio risulta pari a 1.550,11 euro, di cui 1.678,12 euro riferiti a contratti aziendali e 640,26 euro a contratti territoriali.
L’Istat ha cessato dal 2010 di raccogliere i dati sugli scioperi. È difficile negare che questa scelta non abbia riscontro in una conflittualità sostanzialmente fisiologica nel campo delle relazioni industriali. Sarà per questo motivo che i “padroni” sono spariti dalle rivendicazioni sindacali che ormai si scaricano – in Italia sicuramente – sui governi come se tutti i problemi si risolvessero attraverso la redistribuzione.
Membro del Comitato scientifico ADAPT