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Bollettino ADAPT 19 giugno 2023, n. 23
Ancora oggi in Italia l’apprendistato stenta ad affermarsi. Sono rare le riflessioni e le proposte di politica del lavoro a proposito di come (ri)pensarlo per dare risposte concrete alle difficoltà delle imprese nel trovare personale qualificato, contrastare l’inattività giovanile, e offrire percorsi utili ad accorciare la distanza tra sistemi formativi e mondo del lavoro, più efficaci e tutelanti rispetto agli (spesso abusati) tirocini extracurriculari.
A livello internazionale, invece, si osserva il contrario. L’Inghilterra, a partire dal 2017, ha cominciato ad investire massicciamente su questo strumento e a promuoverne la diffusione, anche con innovazioni radicali. Qualcosa di simile è osservabile anche in Francia, dove si nota il maggior incremento di questi contratti. Di apprendistato parla anche la Commissione Europea, che ha rilanciato l’anno scorso la European Alliance for Apprenticeships, e recentemente l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) ha proposto una Raccomandazione dedicata agli apprendistati di qualità, nell’ambito della sua 111° conferenza annuale, tenutasi a Ginevra dal 5 al 16 giugno 2023. La versione definitiva della Raccomandazione è stata approvata venerdì scorso, 16 giugno. In allegato e in chiusura di questo articolo è possibile consultare una tabella che evidenzia per ogni aspetto della Raccomandazione promossa dall’ILO il suo rispetto (o meno) nell’attuale regolamentazione italiana dedicata all’apprendistato, distinguendo tra ricezione formale – cioè la presenza di norme dedicate ai temi trattati – e sostanziale – e quindi l’effettività delle stesse.
Perché dedicare così grande attenzione all’apprendistato? Nell’introduzione al documento, l’ILO evidenzia come grazie a questi percorsi duali di formazione e lavoro sia possibile oggi far fronte alle imponenti trasformazioni che abitano il mercato del lavoro. L’apprendistato viene cioè identificato come uno strumento utile a dotare i lavoratori delle competenze necessarie a garantire la loro occupabilità nel tempo e a rispondere ai fabbisogni formativi, più o meno innovativi, manifestati dalle imprese. Più nello specifico, l’ILO evidenzia come le trasformazioni in atto richiedano «the development of quality apprenticeships that provide opportunities for people of all ages to skill, reskill and upskill continuously». Gli apprendistati (di qualità) non sono quindi dedicati, secondo l’ILO, esclusivamente ai più giovani, ma anche a lavoratori adulti, e sono funzionali non solo all’ingresso (qualificato) nel mondo del lavoro da parte di studenti e studentesse in uscita dai percorsi formativi, ma anche alla riqualificazione e alla formazione continua. Un apprendistato “senza limiti di età”, quindi, che ricorda l’attuale modello inglese dove il contratto è attivabile in qualsiasi momento della vita, anche da parte di lavoratori già occupati desiderosi di aumentare le proprie competenze.
La Raccomandazione si apre fornendo una definizione di che cos’è l’apprendistato: «a form of education and training that is governed by an apprenticeship agreement, that enables an apprentice to acquire the competencies required to work in an occupation through structured and remunerated or otherwise financially compensated training consisting of both on-the-job and off-the-job learning and that leads to a recognized qualification». In prima battuta un percorso formativo, dunque, regolato da un contratto che prevede un salario o comunque un sostegno economico, dove l’ottenimento di una qualifica o qualificazione riguardante un’occupazione specifica è reso possibile dall’alternanza di formazione sul luogo di lavoro e presso un’istituzione esterna. La qualificazione ottenuta deve essere “riconosciuta”.
In Italia l’apprendistato è sostanzialmente, apprendistato professionalizzante (o di secondo livello), che alla luce dei dati forniti da INAPP (si veda l’ultimo rapporto di monitoraggio, L’andamento dell’apprendistato nella crisi pandemica. XX rapporto di monitoraggio, e a commento M. Colombo, L’apprendistato che non c’è. Riflessioni e proposte a partire dall’ultimo rapporto Inapp-Inps, Working Paper ADAPT, n.11/2022) sappiamo corrispondere a circa il 97% degli apprendistati italiani. Residuali sono i numeri dell’apprendistato duale (di primo o di terzo livello). L’apprendistato professionalizzante può essere effettivamente definito apprendistato, secondo gli standard dell’ILO? Dubbi sorgono se si considera che non vi è alcuna alternanza strutturale tra formazione interna ed esterna. In Italia la seconda risulta essere, oltre che modesta nel monte ore e nei contenuti, vincolata alla disponibilità o meno di fondi pubblici. In assenza di quest’ultimi questo monte ore formativo non risulta nemmeno obbligatorio. Qualche dubbio potrebbe sorgere anche riflettendo su quanto una qualificazione valida (esclusivamente) ai fini contrattuali possa essere considerata una qualificazione “riconosciuta”. Diverso è invece il caso dell’apprendistato duale, di primo e terzo livello, dove si assiste ad una costante integrazione tra formazione e lavoro, che permette ai giovani e alle giovani di conseguire titoli di studio (tutti i titoli di studio secondari superiori e terziari) contestualmente allo svolgimento di un’attività lavorativa coerente con il proprio percorso formativo – ma che, come già ricordato, è scarsamente diffuso in Italia.
Nel merito, la Raccomandazione indica alcuni elementi che devono caratterizzare ogni apprendistato “di qualità”. Il primo su cui si concentra è il quadro normativo. Viene specificato come l’apprendistato andrebbe pensato come parte integrante del sistema di formazione professionale (iniziale e continua), mentre a suo supporto andrebbe previsto un meccanismo per favorire la riconoscibilità delle competenze ottenute durante questi percorsi duali. Pensando all’Italia, è possibile affermare come tutti questi elementi siano richiamati in normative di dettaglio. Il quadro legale, quindi, può definirsi completo. Allo stesso tempo, se si considera l’effettiva implementazione di quanto disposto a livello normativo, è inevitabile pensare alla mancata implementazione del sistema di certificazione delle competenze, che pure potrebbe essere determinante per la messa in trasparenza e la riconoscibilità delle competenze acquisite in apprendistato, e più in generale alla distanza che si osserva tra profili formativi dell’apprendistato (quando presenti) e sistemi di inquadramento contrattuale. La Raccomandazione invita poi i Membri ILO a designare o costituire un’autorità pubblica responsabile per la regolazione dell’apprendistato, dove le Parti Sociali possano essere adeguatamente rappresentate. Un’istituzione chiamata a collaborare con altre istituzioni e Ministeri competenti nell’ambito dell’istruzione e formazione, del lavoro, della protezione sociale, della salute e sicurezza. In Italia tale ruolo dovrebbe essere svolto dal Ministero del Lavoro, anche se forse manca quel coordinamento che la Raccomandazione auspica con altre istituzioni.
È interessante notare poi come la Raccomandazione evidenzi la necessità di prevedere meccanismi attraverso i quali i Governi e soprattutto le Parti Sociali possano identificare quali sono le occupazioni, e quindi i mestieri, che è possibile “imparare” grazie all’apprendistato: e di rimando la durata dei percorsi, le competenze da ottenere, l’età minima e massima, ecc… Tutti elementi effettivamente presenti nel quadro normativo italiano, dove alla contrattazione collettiva nazionale vengono dati ampi margini di manovra per identificare le qualificazioni ottenibili in apprendistato e le loro caratteristiche in termini di competenze, di formazione richiesta, e altri aspetti ricordati dall’ILO.
Sul piano dell’effettiva implementazione di questo sistema almeno due elementi indicati dalla Raccomandazione sembrano però mancare nel contesto italiano. Il primo riguarda il fatto che le occupazioni identificate in collaborazione o direttamente dalle Parti Sociali come “costruibili” grazie all’apprendistato devono basarsi su un lavoro di analisi dei fabbisogni formativi, e quindi essere collegate a competenze e a profili costantemente aggiornati. Questo lavoro di costante manutenzione dei profili formativi e professionali è uno dei punti deboli dell’apprendistato italiano, dato che nel nostro Paese si osserva invece alla diffusione di percorsi di apprendistato le cui competenze sono state codificate molti anni fa, senza essere mai aggiornate. Mancano anche, nel contesto italiano, attività che la Raccomandazione prevede, come l’accompagnamento costante degli apprendisti in termini di «career counselling», o procedure per l’attestazione e la certificazione («assessing and certifying») le competenze acquisite.
Particolarmente interessante è la richiesta di garantire la possibilità agli apprendisti assunti da aziende di piccole dimensioni di svolgere il proprio percorso in più imprese. Un’indicazione di questo tipo può sembrare incomprensibile, se si pensa all’apprendistato come strumento utile al (rapido) inserimento lavorativo. Se invece si adotta come prospettiva quella della finalità formativa di questo contratto, e cioè l’ottenimento di una qualificazione o, in altre parole, l’”imparare un mestiere”, allora si può capire la logica di questa proposta: in un’azienda di limitate dimensione è possibile che l’apprendista riesca ad acquisire solo alcune ma non tutte le competenze caratterizzanti una specifica occupazione. Da qui la richiesta di prevedere il passaggio ad altre imprese, sulla base delle loro caratteristiche e in particolare delle possibilità formative offerte, così da permettergli di raggiungere tutte le competenze effettivamente richieste per lo svolgimento dell’occupazione qualificata scelta. Tale disposizione nasce anche dalla constatazione che, a differenza di quanto osservabile in Italia, molti Stati membri dell’ILO sono caratterizzati da microimprese dove l’organizzazione del lavoro impedisce o comunque limita fortemente la possibilità di implementare robusti percorsi di formazione. La Raccomandazione invita anche ad implementare efficaci sistemi di monitoraggio e di valutazione. Questo in Italia è garantito dai periodici rapporti INAPP-INPS dedicati proprio all’apprendistato, nei quali però non vi sono analisi riguardanti la qualità effettiva dei percorsi svolti.
Vengono poi richieste adeguate tutele per gli apprendisti, che vanno da disposizioni di tutela della salute e sicurezza fino ad un salario adeguato, già previste dal sistema italiano. Innovative sono invece le previsioni riguardanti la promozione degli apprendistati di qualità. In particolare, viene suggerito di «establishing sectoral or occupational skills bodies to facilitate the implementation of quality apprenticeships». Il pensiero non può che andare, in questo caso, agli enti bilaterali che già esistono o che potrebbero essere costituiti dalle Parti Sociali proprio per svolgere attività di monitoraggio dei fabbisogni formativi del settore e del territorio, valutazione dei percorsi di apprendistato, promozione dello strumento e assistenza alle imprese e ai lavoratori, in termini progettuali e formativi: luoghi nei quali realizzare (anche) quella collaborazione tra pubblico e privato auspicata dalla Raccomandazione.
La Raccomandazione dell’ILO invita i Membri ad implementare apprendistati, come già anticipato, dedicati anche agli adulti – attualmente in Italia solo i lavoratori beneficiari di sostegni al reddito possono sottoscrivere contratti di apprendistato professionalizzante, senza limiti di età – e a soggetti vulnerabili, anche attraverso l’implementazione di percorsi di pre-apprendistato. Già diffusi in altri Paesi europei e non solo, quest’ultimi sono corsi più o meno brevi che hanno come obiettivo quello di fornire ai giovani (e non solo) le competenze base necessarie per poi candidarsi a percorsi di apprendistato vero e proprio. Nel complesso sistema di equilibri che ha sempre caratterizzato l’apprendistato, tra la necessità di ricorrervi come mezzo di inclusione sociale capace di garantire carriere di qualità a giovani senza titoli di studi elevati, e la qualità formativa che pure deve mantenere questo strumento per restare attrattivo agli occhi delle imprese e degli apprendisti stessi, i pre-apprendistati servono a non rinunciare alla prima necessità (rivolgendosi spesso a NEET che non sono ancora pronti ad attivare un contratto di apprendistato vero e proprio), garantendo la seconda, e cioè il livello formativo eccellente dei percorsi di apprendistato. Infine, la Raccomandazione incoraggia i Membri a sviluppare reti locali, nazionali e internazionali dedicate all’apprendistato, allo scambio di buone e pratiche e informazioni, allo sviluppo di progetti condivisi, all’orientamento e alla promozione di questo strumento.
In conclusione, è possibile evidenziare come buona parte delle indicazioni contenute nella Raccomandazione approvata dall’ILO sono già presenti nel quadro normativo italiano. D’altronde, gli Stati più interessati alla Raccomandazione non sono quelli dove l’apprendistato dispone già di un quadro normativo chiaro e definito, ma quei Paesi in via di sviluppo dove spesso questo strumento è ancora utilizzato nell’ambito dell’economia informale. Allo stesso tempo, si può notare come la dimensione “contrattuale” dell’apprendistato, e cioè il suo utilizzo come regolare contratto di lavoro, la predisposizione di specifiche tutele e di un salario, ecc… sia quella su cui l’Italia si fa trovare pronta a fronte dell’approvazione della Raccomandazione: cioè che invece manca, almeno in parte, è un potenziamento di quella dimensione formativa e progettuale che pure contraddistingue l’apprendistato di qualità, sul piano dell’effettiva implementazione del sistema disegnato dal pur completo quadro normativo. Non si tratta, infatti, di dover riformare lo strumento. Le mancanze non sono da individuare a livello legislativo. Piuttosto, sono le Parti Sociali che, più di ogni altra istituzione, dovrebbero leggere con attenzione questa Raccomandazione. Intervenendo poi in almeno due direzioni: attraverso una generale revisione dei profili formativi dell’apprendistato professionalizzante, da aggiornare alla luce dei fabbisogni emergenti e con riferimento a occupazioni “a banda larga” e non ad un loro frammento che poi impedisce una vera occupabilità all’apprendista, nonché un aumento delle ore da dedicare alla formazione “interna” nel caso dell’apprendistato professionalizzante (che si fermano, mediamente, alle 80 all’anno). Decisivo è anche lavorare per uno strutturale raccordo tra questi profili formativi e i sistemi di inquadramento previsti dai diversi contratti collettivi, così da saldare queste due dimensioni e dare ancora più valore alla formazione ricevuta in apprendistato.
Fondamentale è anche una riscoperta della potenzialità della bilateralità nella progettazione di efficaci percorsi di apprendistato (sul punto si veda anche AA.VV., Il ruolo della bilateralità nella gestione dei contratti di apprendistato: una mappatura della contrattazione collettiva nazionale, Working Paper ADAPT, n. 15/2022). Gli enti bilaterali possono diventare le sedi privilegiate per svolgere attività di rilevazione dei fabbisogni territoriali, supporto alla costruzione di innovativi profili formativi, assistenza alle imprese, formazione ai tutor aziendali, promozione di attività di orientamento e instaurazione di collaborazioni con scuole, ITS Academy, Università per lo sviluppo dell’apprendistato duale. Non solo: per favorire la “riconoscibilità” – come pure richiesto dalla Raccomandazione – delle qualificazioni ottenute attraverso percorsi di apprendistato è possibile immaginare che il raccordo tra profili formativi e professionali, per evitarne la riduzione a prassi solo formale, possa essere assegnato agli enti bilaterali, incaricati dai relativi sistemi di relazioni industriali. Un raccordo quindi basato sulla corrispondenza tra competenze acquisite grazie all’apprendistato, profili di riferimento e sistemi di inquadramento contrattuale, “certificato” grazie a momenti di verifica “operativa” – e appunto non esclusivamente formale – di quanto, concretamente, appreso dall’apprendista.
ADAPT Senior Research Fellow
@colombo_mat
Le indicazioni dell’ILO per un apprendistato di qualità e il caso italiano