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Bollettino ADAPT 17 luglio 2023, n. 27
La selezione del personale è il processo tramite cui avviene lo screening e la scelta dei candidati considerati idonei all’inserimento in azienda, risorse solitamente definite a partire da una strategia di talent acquisition. Infatti, affinché il recruiting sia strumento di supporto efficace per l’organizzazione i responsabili delle assunzioni devono avere un’idea chiara delle necessità aziendali in termini di ruoli, competenze, e attitudini. La fase di selezione del personale è uno strumento decisivo per garantire la sopravvivenza di una impresa, per questo motivo alcune linee di fondo che stanno attraversando il mercato del lavoro hanno indotto le aziende a quella che già venticinque anni fa è stata definita una vera e propria guerra per il talento all’interno del mercato del lavoro post-fordista (R. Edwards, The Inevitable Future? Post-Fordism in Work and Learning in Adult Learners, Education, and Training: A Reader, a cura di R. Edwards-S. Sieminski-D. Zeldin, Psychology Press, 1993, 176–86). Se a questi aspetti integriamo l’esplorazione delle dimensioni simboliche che accompagnano i processi organizzativi possiamo osservare come la selezione del personale sia un evento estremamente significativo nella vita degli individui: si tratta di un incontro tra parti che hanno desideri, aspettative, ma anche limiti e preoccupazioni rispetto al ruolo da ricoprire in azienda. In questo spazio avviene un confronto spesso implicito su quale valore si assegna al lavoro inteso come dimensione identitaria, costrutto che ad oggi è in profondo mutamento. Molte imprese, infatti, faticano a motivare e persuadere i propri dipendenti a investire in una dimensione progettuale dentro l’azienda che vada oltre lo scambio economico a breve termine.
Se questo processo può risultare complesso per chiunque pensiamo a cosa accade quando il protagonista è una persona che si trova in una condizione di vulnerabilità: quali canali troverà per avvicinarsi o ri-avvicinarsi a un contesto lavorativo. E soprattutto quali sono le strutture entro gli assetti organizzativi che si occupano di far incontrare i fabbisogni aziendali e le aspirazioni professionali di chi attraversa una condizione di fragilità. Se ci spostiamo nell’area della disabilità certificata l’interrogativo inizia a essere contrassegnato da criticità più evidenti e preoccupanti: i dati sulla percentuale di occupazione di coloro che soffrono di limitazioni gravi è al 32,2% contro il 59,8% delle persone senza limitazioni. Inoltre, il volume totale di posti scoperti in azienda dedicati alle persone con disabilità si attesta su 148.229 unità (Audizione dell’Istat presso il Comitato Tecnico Scientifico dell’Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità, 24 marzo 2021; X Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della Legge 12 marzo 1999, n. 68 “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”).
Soffermarsi su cosa accade nella fase di selezione del personale può fornire spunti utili per interpretare questi dati e per esplorare gli ostacoli presenti nel dialogo tra produttività dell’azienda e politiche di inclusione. Un recente IZA Discussion Paper («Disability, Gender and Hiring Discrimination: A Field Experiment») esamina la presenza di discriminazioni dovute alla condizione di disabilità all’interno del processo di selezione del personale in Svezia. L’obiettivo dello studio è esplorare il modo in cui disabilità e genere modellano il comportamento di assunzione dei datori di lavoro. I dati sono stati ricavati da uno studio sul campo in cui circa 2000 job applications di persone con disabilità sono state inviate in risposta a oltre 1000 annunci di lavoro relativi a sette aree professionali: assistenti amministrativi, tecnici ICT e di supporto agli utenti, sviluppatori di software, contabili, rappresentanti commerciali, servizio clienti e assistenti alle vendite in negozio. Dall’analisi dei risultati è emerso che i candidati in sedia a rotelle devono inviare il 33% in più di candidature per ricevere lo stesso numero di colloqui di lavoro rispetto ai colleghi non disabili con qualifiche analoghe, nonostante si siano candidati per lavori in cui la disabilità fisica non dovrebbe interferire con le mansioni da svolgere.
Inoltre, è stata esplorata la relazione tra le dichiarazioni sull’impegno per valorizzare la diversità in azienda e la presenza di discriminazioni legate al genere e alla disabilità. Nello specifico sono state esaminate le seguenti condizioni: a) se l’impresa dichiara di essere favorevole all’inserimento della diversità in azienda e dispone di un piano per tutelare le condizioni di diversità; b) se l’impresa è soggetta a una legislazione che la obbliga a riferire e documentare le misure in materia di parità salariale; c) la presenza in azienda di un dipartimento delle risorse umane che si occupi di promuovere le pari opportunità e tutelare le diversità. L’analisi dei dati ha evidenziato che nessuna di queste condizioni limita la portata delle discriminazioni basate su disabilità e genere misurata in termini di probabilità di essere richiamati per un colloquio dopo l’invio della candidatura.
Per approfondire questi dati sono state realizzate delle interviste da cui emergono alcuni elementi critici che sembrano rilevati per comprendere il fenomeno anche oltre il contesto svedese: i datori di lavoro intervistati hanno affermato di non potersi impegnare ulteriormente per aumentare la diversità e l’uguaglianza di genere in azienda dal momento che hanno difficoltà a reperire candidati qualificati e non vogliono limitare il processo di selezione ancorando l’offerta di lavoro a specifiche categorie sociali. Inoltre, hanno suggerito che una possibile spiegazione del basso numero di convocazioni per un colloquio selettivo sta nella percezione delle persone in sedia a rotelle come meno produttive. Tuttavia, l’ipotesi più diffusa è quella secondo cui i numeri più bassi di colloqui per le persone in sedia a rotelle sono probabilmente dovuti alle difficoltà a garantire accomodamenti ragionevoli in azienda. Nonostante ciò, quando ai datori di lavoro veniva chiesto se il proprio posto di lavoro fosse accessibile alle persone con disabilità motoria, la maggior parte rispondeva affermativamente, compresi 13 dei 15 datori di lavoro che avevano convocato solo candidati non disabili per un colloquio. In sintesi, l’incoerenza tra le convinzioni delle aziende sulle ragioni che spingono gli altri datori di lavoro a rifiutare le persone in sedia a rotelle e le loro effettive decisioni sull’assunzione permettono di ipotizzare che alla base del minor numero di colloqui svolti da persone con disabilità motoria vi sia la presenza di convinzioni circa la loro minore produttività.
I dati della ricerca mostrano che occuparsi di produttività e inclusione implica tenere insieme due mondi che sembrano ancora orientati al perseguimento di obiettivi molto distanti tra loro: da un lato la valorizzazione del fattore economico e dall’altro la promozione di un impegno solidaristico. Le più recenti trasformazioni del lavoro impongono tuttavia linee di azione e risposte capaci di andare oltre questa visione parziale. Infatti, mentre le aziende faticano a rispondere ai propri fabbisogni professionali, fidelizzando e motivando le persone a investire sulla propria professionalità e occupabilità, i dati sull’inserimento lavorativo di persone che si trovano in una condizione di fragilità, e che potrebbero trovare uno spazio di realizzazione entro un percorso occupazionale, sono tutt’altro che incoraggianti. Sembra esserci un potenziale incontro virtuoso tra bisogni complementari che, tuttavia, non trova oggi la strada per declinarsi in una prassi consolidata.
In alcune realtà aziendali si stanno diffondendo prassi di Diversity, Equity & Inclusion (DE&I) ossia un insieme di programmi e relative strategie che mirano a riconoscere e a valorizzare le differenze dei dipendenti. Inoltre, uno spazio sempre più ampio è dedicato alla formazione di profili professionali come il Disability e Diversity manager che dovrebbero occuparsi di monitorare il rispetto delle politiche inclusive entro i contesti aziendali e, soprattutto, sviluppare metodi di intervento capaci di promuovere l’inclusione. In entrambi i casi – DE&I e Disability/Diversity manager – ci troviamo di fronte a importanti segnali culturali dell’attenzione dedicata all’area della vulnerabilità; tuttavia, sembrano essere ancora esigui i metodi condivisi e diffusi per intervenire sul rapporto tra le diversità dei lavoratori e gli obiettivi delle aziende in termini di produttività. Il nodo è sviluppare criteri per intervenire sugli assetti organizzativi e rendere il lavoro accessibile a tutti, in base alle capacità di ognuno.
Non si può ragionare in termini di produttività se prima non mettiamo in discussione la convinzione che l’inclusione sia un obiettivo di per sé: l’inclusione è una funzione che viene sviluppata entro i contesti affinché sia garantita a tutti i lavoratori la possibilità di contribuire al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo dell’organizzazione. Dichiarare di avere come finalità l’inclusione rischia di essere un vicolo cieco se, allo stesso tempo, non si consolida l’obiettivo principale dei professionisti che operano in quest’area ossia creare le condizioni affinché tutti i lavoratori, nelle loro specificità, possano partecipare alla produttività dell’azienda. Ostinarsi a scindere produttività e inclusione non permette di sottrarre il tema dell’inserimento lavorativo di persone vulnerabili dall’area della marginalità. In questo spazio attivare risorse è un compito gravoso di cui finora si sono occupate principalmente realtà imprenditoriali virtuose come quelle della cooperazione che ha saputo sviluppare strumenti per promuovere l’occupabilità di tutti i suoi lavoratori. Guardare alla cooperazione potrebbe consentire di sviluppare criteri per estendere le numerose – e spesso poco riconosciute – buone prassi realizzate dal privato sociale alle realtà aziendali. Queste ultime si trovano a dover gestire trasformazioni demografiche i cui riflessi sono fenomeni come l’aumento dell’età media della popolazione lavorativa, l’aumento di lavoratori con malattie croniche, nuove esigenze di conciliazione vita-lavoro. Tutte condizioni che richiedono da un lato di intendere il concetto di salute in modo diverso rispetto al passato e, dall’altro, nuove azioni da parte delle organizzazioni per rende possibile l’incontro tra soggettività dei lavoratori e produttività dell’azienda.
Ilaria Fiore
Scuola di dottorato in Apprendimento e Innovazione nei contesti sociali e di lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Siena