ADAPT – Scuola di alta formazione sulle relazioni industriali e di lavoro
Per iscriverti al Bollettino ADAPT clicca qui
Per entrare nella Scuola di ADAPT e nel progetto Fabbrica dei talenti scrivi a: selezione@adapt.it
Bollettino ADAPT 30 ottobre 2023, n. 34
Con l’ordinanza n. 26997/2023, la Corte di Cassazione, in linea di continuità con un indirizzo di legittimità consolidato, è intervenuta riconoscendo l’assenza di incompatibilità tra il periodo di malattia e le ferie, tale per cui risulti possibile fruire di queste ultime, quando siano maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto. In particolare, questo risulta possibile senza che a tale facoltà corrisponda comunque un obbligo del datore di lavoro di concedere il godimento del periodo di ferie richiesto, qualora ricorrano ragioni organizzative di natura ostativa, in un’ottica di bilanciamento degli interessi contrapposti, nonché in ossequio alle clausole generali di correttezza e buona fede. Tuttavia, in tal caso, è necessario che le dedotte ragioni datoriali siano concrete ed effettive.
Nella seguente esposizione andremo ad affrontare come la Corte è arrivata all’elaborazione di questo principio di diritto, ripercorrendo le vicende di un procedimento nel quale ad una lavoratrice è stato intimato il licenziamento, dichiarato successivamente come illegittimo, a seguito del superamento del periodo di comporto e del diniego, da parte della datrice di lavoro, del godimento del periodo di ferie maturato per allungare il suddetto periodo.
Per ricostruire il ragionamento della Corte sul tema, risulta utile ripercorrere i fatti di causa e l’iter processuale che ne ha fatto seguito.
In primo grado, l’attrice aveva convenuto in giudizio, di fronte al Tribunale di Fermo, l’azienda di cui era dipendente per licenziamento illegittimo. Nel caso di specie, il licenziamento era stato inflitto all’attrice a seguito del superamento del limite massimo del periodo di comporto, fissato pacificamente in data 28 Marzo 2015.
Prima che scadesse tale termine, con missiva del 17 Marzo 2015, la lavoratrice aveva comunicato all’azienda la propria intenzione di fruire delle ferie già maturate e non fruite (per un totale di 197 ore) e di richiedere, al termine della fruizione delle stesse, anche l’aspettativa non retribuita (nel caso di perdurante inabilità al lavoro e, quindi, di impossibilità di riprendere servizio).
A fronte di questa richiesta, la società datrice di lavoro, nella missiva di risposta datata 25 Marzo 2015, da una parte negava la fruizione delle ferie maturate non ancora godute, mentre, dall’altra parte comunicava di accettare la richiesta di aspettativa non retribuita, dal 28 Marzo al 25 Luglio 2015. Per giustificare il proprio diniego, la società specificava nella stessa missiva, che le ferie maturate e non ancora godute sarebbero state pagate al termine del periodo di aspettativa, con la cessazione del rapporto di lavoro, nel caso in cui la lavoratrice non fosse stata ancora in grado di riprendere l’attività lavorativa, al termine del periodo di 120 giorni.
In primo grado, il tribunale di Fermo aveva asserito l’illegittimità del licenziamento siccome intimato alla lavoratrice prima del superamento del periodo di comporto. Il licenziamento era quindi stato annullato, con condanna dell’azienda alla reintegrazione immediata nel posto di lavoro e al pagamento di differenze retributive per lavoro domenicale e festivo. In via contestuale, la stessa azienda era stata condannata al pagamento del risarcimento del danno biologico da mobbing nei confronti della lavoratrice.
Successivamente, in secondo grado di giudizio, la Corte d’Appello di Ancona aveva parzialmente accolto il ricorso dell’azienda, eliminando la condanna al risarcimento del danno da mobbing e riducendo la condanna al pagamento delle differenze retributive. Tuttavia, veniva confermata l’illegittimità del licenziamento, in quanto intimato prima del termine del periodo di comporto.
Il ricorso per Cassazione proposto dall’azienda contro la sentenza di appello è stato quindi basato su tre diversi motivi.
In primo luogo, la società ha lamentato la violazione e falsa applicazione degli artt. 2110 c.c. e 115 cp e dell’art. 181 del CCNL Confcommercio settore terziario rinnovato il 30.3.2015 (ossia la disposizione che tratta dell’aspettativa non retribuita per malattia e che fissa, tra le altre, i periodi massimi di aspettativa prima che il datore di lavoro possa legittimamente procedere al licenziamento del dipendente).
In secondo luogo, è stata denunciata l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un fatto decisivo per la controversia, che ha formato oggetto di discussione tra le parti sia nel giudizio di primo che di secondo grado, ossia la fruizione da parte della dipendente di un periodo di aspettativa non retribuita di 120 giorni contrattualmente stabilita, che ha prolungato il periodo di comporto.
Infine, l’azienda ha lamentato la contraddittorietà e illogicità della motivazione in ordine all’asserito mancato superamento del periodo di comporto che ha determinato la declaratoria di illegittimità del licenziamento nonché alla decisione del datore di lavoro di non concedere alla dipendente di mutare il titolo dell’assenza da malattia a ferie maturate e non godute che avrebbe impedito il prolungamento del periodo di comporto.
La Corte, esaminati congiuntamente i motivi del ricorso, li ha rigettati in toto, ritenendoli inammissibili, e ha proseguito a spiegare i motivi di diritto alla base della decisione, chiarendo in primis come si declina il consolidato indirizzo giurisprudenziale alla base della decisione della Corte territoriale in merito all’illegittimità del licenziamento.
Secondo tale orientamento, il lavoratore assente per malattia non possiede una incondizionata facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, quale titolo della sua assenza, allo scopo di interrompere il decorso del periodo di comporto. Piuttosto, il datore di lavoro, di fronte ad una richiesta del lavoratore di conversione dell’assenza per malattia in ferie, nell’esercizio del potere di stabilire la collocazione temporale delle ferie nel corso dell’anno, dovendo bilanciare le esigenze dell’impresa con gli interessi del lavoratore, è tenuto ad una considerazione e ad una valutazione adeguata alla posizione del lavoratore, che è esposto, con la scadenza del comporto, alla perdita del posto di lavoro.
Tuttavia, – e questo aspetto viene espressamente specificato dalla Corte – tale obbligo non è configurabile in capo al datore di lavoro nel caso in cui il lavoratore abbia la possibilità di fruire di regolamentazioni legali o contrattuali che gli consentono di evitare la risoluzione del rapporto di lavoro per superamento del periodo di comporto, in particolare quando le parti sociali abbiano previsto il collocamento in aspettativa anche non retribuita.
La corte territoriale, secondo il ragionamento dei giudici di legittimità, ha mostrato di tenere conto di questo indirizzo, ritenendo inoltre sostanzialmente immotivato il diniego delle ferie maturate e non godute, esercitato indipendentemente dalla ricorrenza o meno di ragioni organizzative o produttive alla base.
Nei motivi di diritto, poi, la Corte di Cassazione ha precisato come, da una parte, le censure proposte nei motivi del ricorso si risolvono in una mescolanza e sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, che non consentono alla Corte di distinguere i singoli profili di doglianza.
Inoltre, sempre secondo quanto indicato dalla Corte, nel caso in questione ricorre l’ipotesi cd. “doppia conforme”, che si verifica non solo quando la decisione di secondo grado sia interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa. In tale contesto, è inammissibile la censura di omesso esame di fatti decisivi e il ricorrente per Cassazione è tenuto a dimostrare che le ragioni di fatto alla base della sentenza di primo grado e quelle alla base della sentenza di rigetto dell’appello sono diverse. Nel caso in questione, a fronte di due decisioni tra loro senz’altro conformi riguardo alla illegittimità del licenziamento, la ricorrente neppure aveva allegato se e in quali punti le cd. rationes decidendi delle pronunce fossero almeno parzialmente differenti fra loro.
In definitiva, quindi, la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso. Al di là del ragionamento giuridico posto alla base della decisione, ciò che in questa sede è opportuno sottolineare è il rafforzamento di un principio, destinato ad incidere profondamente nei rapporti di lavoro tra dipendente e datore di lavoro, teso a favorire la conservazione del posto di lavoro anche a fronte della scadenza del periodo di comporto.
Andrea Megazzini
ADAPT Junior Fellow