Politically (in)correct – Noi c’eravamo: riflessioni nostalgiche da un libro di Raffaele Morese

Bollettino ADAPT 8 gennaio 2024, n. 1

 

“Quei cinque di via Po 21. Il valore della leadership nel sindacato’’ (Edizioni Lavoro) è un lepidus libellus di Raffaele Morese, dedicato ai primi segretari confederali della Cisl: Giulio Pastore, il fondatore (che Morese definisce “il visionario’’); Bruno Storti, il traghettatore; Luigi Macario, il leader della svolta; Pierre Carniti; colui che sconfisse il Pci sul campo; Franco Marini, lo stabilizzatore, colui che fece intorno a sé un deserto e lo chiamò pace. Arricchiscono il saggio i contributi di Luigi Sbarra (che ha curato la prefazione), l’introduzione di Bruno Manghi, il custode della cultura della Confederazione, una postfazione di Paolo Feltrin che ripercorre e interpreta la storia della Cisl nel contesto di quella dell’Italia e una puntuale cronologia degli eventi dal 1943 al 1989, curata da Luigi Lama del Centro Studi di Firenze. Sono raccolte nel testo anche documenti (interventi, relazioni, ecc.) riguardanti i cinque protagonisti.

 

Morese non è uno storico e neppure un osservatore esterno (o estraneo), nel raccontare la vita e le opere dei “cinque di Via Po 21”, l’autore riannoda (è bene farlo ad una certa età) il filo della sua esistenza di una persona che “ha trascorso tutta la sua vita lavorativa da sindacalista. Entrato nell’Ufficio studi nel 1967 ne è uscito da segretario generale aggiunto, incarico ricoperto dal 1991. Un’esperienza ricca vissuta in un mondo di giganti, di leader che sono stati in grado di incidere nel destino di milioni di lavoratori, insieme ad altre stirpi di giganti che dirigevano le altre confederazioni: Giuseppe Di Vittorio, Italo Viglianesi, Agostino Novella, Fernando Santi, Vittorio Foa, Luciano Lama, Bruno Trentin, Piero Boni, Agostino Marianetti, Ottaviano Del Turco, Raffaele Vanni, Antonio Lettieri, Elio Giovannini, Giorgio Benvenuto. Giorgio è l’ultimo dei “grandi sauri’’, sopravvissuto al passare degli anni e rimane un testimone delle cose di oggi, ma soprattutto l’aedo di una grande storia che ha voluto tramandare in una lunga intervista rilasciata a Bruno Chiavazzo dal titolo “Il sindacalista e la storia’’ in libreria a metà gennaio.

 

Seguire il racconto di Morese per me ha avuto un preciso significato: rileggere per interposta persona trent’anni della mia vita negli stessi luoghi, esperienze ed eventi, passioni e delusioni che percorrono le pagine del libro. Io sono entrato nel sindacato alla Fiom di Bologna nel 1965 e ne sono uscito da segretario confederale della Cgil nel 1993. Ho lavorato – spalla a spalla – con Raffaele per diversi anni, dalla stessa parte, nella Flm di cui siamo stati tra i fondatori (magari nelle seconde e terze file dei protagonisti) in quel palazzo di via Trieste dove si lavorava in regime di promiscuità tra le diverse appartenenze e che oggi è diventato un condominio tra inquilini litigiosi. Ci siamo poi ritrovati nelle rispettive segreterie confederali con delega per le medesime materie. Ovviamente i passaggi cruciali di quegli anni in cui si accese persino la speranza della riunificazione sindacale non solo mi erano noti e li avevo seguito da vicino, perché ciò che avveniva in un’altra organizzazione avrebbe influito anche sulla mia, nell’azione quotidiana come nelle prospettive politiche.

 

Ma a leggere la ricostruzione di Morese non solo si compie un salto nella memoria, ma si capiscono di più vedendole dal di dentro le vicende a cui avevi assistito da testimone a conoscenza dei fatti ma dall’esterno. Purtroppo, come ha scritto Seneca, il passato ritorna tutto in una volta senza seguire un ordine scandito dal tempo trascorso. È importante, invece, riposizionare i fatti nel momento in cui sono avvenuti e segnalare come ciascun evento abbia contribuito a cambiare la realtà e a condizionare il futuro prossimo: un’opera di per sé meritoria senza alcun bisogno di scomodare la storia. Il saggio di Raffaele ha soprattutto un merito: quello di mettere in evidenza a tanti anni di distanza il filo rosso che lega i suoi “magnifici cinque”.

 

A parte Pastore, che comunque è un riferimento per tutti perché  impresse le stimmate nel corpo vivo della Cisl, a partire dal rifiuto di farne un sindacato cristiano o democristiano (nonostante il ruolo giocato dalle Acli nella costruzione della confederazione dopo la scissione del 1948 e la presenza di un organizzazione cristiana internazionale) e dalla scelta risoluta di agganciarsi, attraverso una vera e propria rivoluzione culturale, al sindacalismo del mondo libero con un occhio attento agli Usa. Non era una scelta facile perché sembrava naturale che le confederazioni si riferissero ai grandi partiti di massa come era evidente per la Cgil e la Uil. Certo la maggior parte dei dirigenti della Cisl erano democristiani per di più parlamentari dello Scudo crociato (Pastore lasciò la segreteria generale per entrare al governo). L’incompatibilità si pose per tutte le confederazioni (come premessa di valore corollario dell’autonomia) quando si avviò un processo di unificazione. Ma nella segreteria nazionale del Cisl ci fu sempre posto per dirigenti legati ai partiti laici. C’era però una sostanziale differenza: mentre nella Cgil la scelta dei leader avveniva nella direzione del Pci (e per gli “aggiunti” in quella del Psi), nella Cisl la partita si giocava tutta tra le diverse cordate interne a colpi di voto segreto.

 

Andando oltre il “fondatore”, tra Bruno Storti, Luigi Macario, Pierre Carniti e Franco Marini è passata la staffetta della Cisl di oggi e di domani. Bruno Storti fu l’uomo della svolta. Braccio destro di Pastore ai tempi della scissione e degli accordi separati, alla fine degli anni ‘60, Storti cambiò radicalmente posizione e divenne un protagonista dell’impegno unitario al punto da sostenere un confronto molto aspro all’interno della propria organizzazione, spesso avvalendosi di maggioranze risicate e arrivando sulla soglia di una possibile scissione. Mentre nel Congresso del 1969 Storti era ancora alleato con Vito Scalia (scomparso nell’ottobre del 2009), già nel Congresso del 1973 si era determinato un nuovo assetto: Storti era a capo di uno schieramento di centro-sinistra che raccoglieva i dirigenti delle strutture del Nord e delle categorie dell’industria, mentre Vito Scalia guidava l’opposizione che faceva capo alle federazioni dell’agricoltura (con al centro la potente federazione dei braccianti diretta da Paolo Sartori), del pubblico impiego (il cui punto di riferimento era Franco Marini) e alle Unioni territoriali meridionali. Le due mozioni finali, una della maggioranza, cui faceva capo Storti, e una della minoranza di vito Scalia, ottennero rispettivamente: 1.121.500 voti la prima e 899.500 voti la seconda.

 

La mozione congressuale vittoriosa confermava la volontà della Cisl di realizzare l’unità organica portando avanti le esperienze avviate, generalizzando le strutture di base, facendo della Federazione unitaria un momento di reale democratizzazione del processo unitario. La segreteria, eletta dal nuovo Consiglio generale uscito dal Congresso, era così composta: Storti (segretario generale), Macario (segretario generale aggiunto), Baldini, Ciancaglini, Fantoni, Marcone, Marini, Reggio, Romei, Spandonaro, Tacconi (segretari confederali): un mix elaborato di posizioni politico-sindacali. All’uscita di Storti dopo 18 anni al vertice della Confederazioni subentrò Luigi Macario, anch’esso dirigente storico che si trovò a “lavare i panni in Arno” nella Fim, la Federazione di categoria che aveva fornito un enorme impulso innovatore a tutto il movimento sindacale. Anche Morese è stato un “fimmino” in tutta l’esperienza sindacale; nel suo libro c’è un momento di commozione quando indica uno per uno il nome di quell’eletta schiera dei dirigenti degli anni 60, protagonisti di una nuova visione del sindacato che andava bel oltre la forma dell’associazione di iscritti.

 

Macario rappresentava una successione naturale, ma legittimò l’ascesa al potere di una nuova generazione di sindacalisti forgiati nelle lotte unitarie dell’industria, abituati a collaborare con le federazioni della Cgil senza nessun complesso di inferiorità, ma più preparati dei quadri comunisti nelle nuove tecniche contrattuali (questa non è una considerazione per sentito dire, ma la testimonianza di uno che c’era ai tavoli delle trattative insieme ai compagni della Fim). Macario, in pochi, aprì la strada alla segreteria di Pierre Carniti. Per guidare la Cisl Carniti dovette vincere un congresso contro una minoranza guidata da Franco Marini. Ne sortì una gestione unitaria: Carniti segretario generale, Marini segretario generale aggiunto. Grazie a quella diarchia la Cisl ritrovò, attraverso un processo di osmosi e di contaminazione reciproca, quel tessuto unitario che non è più venuto meno. Più il tempo passa e più si perde la memoria dei c.d. carnitiani. Ed è forse per questo motivo che Raffaele – l’ultimo degli amici di Carniti – chiude il suo racconto nel 1989. E, per lo stesso motivo, un vivace intellettuale come Paolo Feltrin per commentare il sindacato di oggi non trova di meglio che le parole di una canzone di Franco Califano: “Si d’accordo, ma poi… Tutto il resto è noia, noia, noia’’.

 

Per concludere ho molto apprezzato il racconto del colloquio tra il giovane Morese e Macario ormai divenuto parlamentare europeo. Morese gli chiede quale sia stata la vicenda più importante della sua lunga militanza sindacale. Macario rispose: “aver contribuito a decidere unitariamente le prime elezioni dei delegati al consiglio di fabbrica su scheda bianca da parte di tutti i lavoratori’’. In effetti fu una scelta coraggiosa che ridimensionava il principio storico, caro alla Cisl, del sindacato associazione senza temere il predominio dei numeri della Cgil. Mi sia consentito, però, un ricordo personale. Mi trovai, per conto della Fiom a discutere con Macario, il documento che assumeva quella decisione nell’ambito della FLM. Io avevo scritto nella bozza che il CdF “era la cellula di base del sindacato”. A Macario non piaceva, per evidenti ragioni, la parola “cellula”. Gli chiesi allora di suggerirmi un’altra definizione. Così il CdF divenne “istanza di base”. Ed è arrivato così fino a noi.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

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