ADAPT – Scuola di alta formazione sulle relazioni industriali e di lavoro
Per iscriverti al Bollettino ADAPT clicca qui
Per entrare nella Scuola di ADAPT e nel progetto Fabbrica dei talenti scrivi a: selezione@adapt.it
Bollettino ADAPT 12 febbraio 2024, n. 6
Il contratto di espansione, previsto dal c.d. decreto crescita del 2019 (art. 26-quater, comma 1, d.l. n. 34/2019, conv. in l. n. 58/2019) e in vigore fino al 31 dicembre 2023, non è stato prorogato per il 2024. Si tratta, quindi, di una misura che è destinata ad esaurirsi, salvo l’intervento di futuri provvedimenti legislativi che ne dispongano il rifinanziamento.
La cessazione della sperimentazione del contratto di espansione priva le imprese medio grandi di uno strumento che si era rivelato nel tempo particolarmente attrattivo, poiché sosteneva i processi di innovazione tecnologica e di trasformazione coniugando una forma di esodo anticipato con programmi di aggiornamento delle competenze e di nuove assunzioni. Inoltre, a differenza delle altre misure vigenti di accompagnamento alla pensione (su cui v. infra), quella connessa al contratto di espansione era particolarmente vantaggiosa perché non incideva in modo significativo sul reddito dei lavoratori coinvolti e, al contempo, comportava per i datori di lavoro un netto risparmio sulla spesa per il costo del lavoro.
Il contratto di espansione era nato per sostituire il previgente contratto di solidarietà espansiva che, nonostante fosse stato introdotto sin dal 1984, era risultato, di fatto, caratterizzato da una sostanziale irrilevanza sul piano applicativo (v. D. Garofalo, Il contratto di solidarietà espansiva, in E. Balletti, D. Garofalo (a cura di), La riforma della Cassa Integrazione Guadagni nel Jobs Act 2, Cacucci, 2016, pp. 343 ss.). Il contratto di solidarietà espansiva mirava, infatti, a incrementare l’organico aziendale mediante una riduzione stabile dell’orario di lavoro e della retribuzione della forza lavoro in essere cui si aggiungeva l’assunzione di nuovo personale, ma gli incentivi connessi al suo utilizzo erano del tutto marginali e ne hanno decretato la “scarsa fortuna”.
Per tali ragioni, la disciplina del contratto di espansione (contenuta nell’art. 41, d.lgs. n. 148/2015 come riformato nel 2019; su cui sia consentito il rinvio a C. Carchio, Il contratto di espansione, in S. Ciucciovino, D. Garofalo, A. Sartori, M. Tiraboschi, A. Trojsi, L. Zoppoli (a cura di), Flexicurity e mercati transizionali del lavoro. Una nuova stagione per il diritto del mercato del lavoro?, ADAPT University Press, 2021, pp. 164 ss.) ha puntato a finalità diverse e ben più ambiziose. Il suo obiettivo era di favorire il ricambio generazionale mediante l’agire combinato di politiche attive e passive del lavoro nell’ambito dei processi di reindustrializzazione e riorganizzazione delle imprese e, segnatamente, di supportare la strutturale revisione dei processi aziendali finalizzati al progresso e allo sviluppo tecnologico dell’attività con conseguente esigenza di modificare le competenze professionali in organico attraverso un loro più razionale impiego e, in ogni caso, prevedendo l’assunzione di nuove professionalità (cfr. Circ. Min. lav. n. 16, 6 settembre 2019).
A tal fine, il contratto di espansione si componeva di una molteplicità di azioni integrate, alcune delle quali, proiettate verso l’esterno, attenevano al reclutamento obbligatorio di nuovi lavoratori, e altre, orientate verso l’interno, prevedevano l’eventuale esodo anticipato dei lavoratori più anziani e la riqualificazione del personale occupato, anche mediante il ricorso facoltativo alla cassa integrazione guadagni straordinaria (d’ora in poi CIGS).
Gli indubbi punti di forza di questo strumento, che agevolava il rinnovamento delle imprese e le accompagnava nella gestione del turn over della forza lavoro con il sostegno economico pubblico, ne hanno favorito la crescente diffusione e il gradimento da parte dei datori di lavoro (sul punto v. M. Dalla Sega, Il contratto di espansione tra riforme e prassi applicativa: una rassegna ragionata, in DRI, 2022, 1, pp. 206 ss.) che, cessata la sua sperimentazione, non possono più contare su misure altrettanto efficaci.
La disciplina del contratto di espansione
Il contratto di espansione, inizialmente in vigore per il biennio 2019-2020 e successivamente esteso fino al 2023 (cfr. art. 1, comma 349, l. n. 178/2020 che ha prorogato la previsione al 2021 e art. 1, comma 215, l. n. 234/2021 che l’ha prolungata anche per gli anni 2022 e 2023) era un contratto espressamente qualificato come «di natura gestionale» (art. 41, comma 2, d.lgs. n. 148/2015) e quindi dotato di efficacia generalizzata a tutti i lavoratori (su tale aspetto si rinvia per tutti a M. Persiani, Contratti collettivi normativi e contratti collettivi gestionali, in ADL, 1999, pp. 3 ss.).
Esso consentiva all’impresa di definire e regolare insieme alle organizzazioni sindacali una serie di interventi che, come si accennava più sopra, potevano comprendere contestualmente: a) il programma di nuove assunzioni; b) il programma di riduzione dell’orario di lavoro con attuazione del progetto di formazione e riqualificazione professionale e accesso alla CIGS; c) il piano di esodo dei lavoratori c.d. pensionabili.
Originariamente le aziende che potevano concludere siffatto contratto erano solo quelle con un organico di almeno 1000 unità, ma questa soglia è stata gradualmente abbassata includendo prima le imprese con più di 500 lavoratori (art. 1, comma 349, l. n. 178/2020), poi con più di 100 (art. 39, d.l. n. 73/2021) e infine con più di 50, anche calcolati complessivamente nelle ipotesi di aggregazione stabile di imprese con un’unica finalità produttiva o di servizi (art. 1, comma 215, l. n. 234/2021).
Per la sottoscrizione del contratto di espansione era necessario il rispetto di una serie di requisiti sostanziali e procedurali. I primi riguardavano i criteri per il reclutamento dei lavoratori da assumere (esclusivamente con contratto a tempo indeterminato, compreso l’apprendistato), quelli relativi alla riduzione dell’orario di lavoro (la cui durata massima, anche frazionata, era di 18 mesi e doveva coincidere con quella della formazione) e all’esodo incentivato dei lavoratori prossimi al pensionamento (su cui v. infra). I secondi prescrivevano che l’impresa interessata, al ricorrere di esigenze di riorganizzazione e reindustrializzazione, desse corso a una fase di consultazione sindacale (secondo le modalità e i termini previsti per la domanda di CIGS) il cui esito sarebbe confluito in un accordo, con le associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o con le loro RSA o RSU, stipulato in sede governativa, cioè presso la Direzione generale dei rapporti di lavoro e delle relazioni industriali del Ministero del lavoro . Nell’ambito della medesima procedura era possibile presentare la richiesta per la concessione della CIGS in favore dei dipendenti interessati dalla riduzione dell’orario di lavoro.
Con particolare riferimento al piano di esodo incentivato, esso consentiva ai lavoratori non reimpiegabili, in conseguenza dello sviluppo tecnologico avviato, di accedere a procedure volontarie di uscita anticipata dall’azienda e di accompagnamento alla pensione e poteva coinvolgere il personale che si trovasse a non più di 60 mesi dal conseguimento della pensione di vecchiaia (che ex art. 24, commi 6 e 7, d.l. n. 201/2011, conv. con mod. in l. n. 214/2011, richiede il raggiungimento di un’età anagrafica non inferiore a 67 anni e la maturazione del requisito minimo contributivo pari a 20 anni) ovvero della pensione anticipata (conseguibili, ex art. 24, comma 10, d.l. n. 201/2011, conv. con mod. in l. n. 214/2011, da coloro che possiedono almeno 42 anni e 10 mesi di contribuzione, se uomini, o 41 anni e 10 mesi, se donne).
Il meccanismo di esodo aziendale comportava, oltre alla risoluzione del rapporto di lavoro, il pagamento da parte del datore di lavoro di un’indennità mensile pari al trattamento pensionistico lordo (determinato dall’Inps) maturato dal lavoratore dal momento della cessazione del rapporto di lavoro e sino al raggiungimento del primo diritto alla pensione, ridotta di un importo equivalente al valore teorico della NASpI al netto del c.d. décalage mensile (art. 41, comma 5-bis, d.lgs. n. 148 del 2015).
Qualora il primo diritto a pensione fosse quello previsto per la pensione anticipata, il datore di lavoro avrebbe dovuto versare anche i contributi previdenziali utili al conseguimento del diritto stesso (“contribuzione correlata”), con esclusione del periodo già coperto dalla contribuzione figurativa connessa al trattamento di NASpI.
La legge di bilancio 2021 (l. n. 178/2020) aveva inoltre introdotto un importante incentivo teso ad abbattere i costi del prepensionamento per le aziende con più di 1000 dipendenti. Nel caso in cui queste si fossero impegnate a osservare un piano di riorganizzazione di particolare rilevanza strategica e ad assumere un lavoratore ogni tre in uscita, avrebbero potuto godere di una riduzione dei versamenti pari all’importo dell’ultima mensilità di spettanza teorica della NASpI per un periodo aggiuntivo di 12 mesi (cfr. combinato disposto dei commi 1-bis e 5-bis, seconda parte, dell’art. 41, d.lgs. n. 148/2015).
Il piano di esodo incentivato connesso al contratto di espansione e le altre forme di pre-pensionamento a confronto
Come si è detto, la possibilità di ricorrere al prepensionamento mediante il contratto di espansione presentava dei sensibili margini di risparmio per le imprese, le quali dovevano corrispondere ai dipendenti esodanti un’indennità pari alla pensione maturata al momento dell’esodo, ma da cui doveva essere detratto l’importo della NASpI (e della contribuzione correlata per il periodo coperto figurativamente dalla prestazione di disoccupazione), senza inoltre dover versare i contributi per i lavoratori prossimi alla pensione di vecchiaia.
Il venir meno di tale istituto consente, ad oggi, di poter contare su forme di scivolo pensionistico più onerose per le imprese e meno vantaggiose per i lavoratori, quali la c.d. isopensione, l’assegno straordinario dei fondi di solidarietà bilaterali e l’APE sociale (non sono invece strumenti assimilabili le pensioni denominate «quota 100», «quota 102», «quota 103» e «opzione donna», che non hanno la natura di indennità di accompagnamento dalla pensione, ma di pensioni anticipate flessibili con requisiti di accesso al trattamento pensionistico agevolati rispetto a quelli ordinari).
Più nel dettaglio, la c.d. isopensione, regolata dall’art. 4, l. n. 92/2012 (su cui v. per tutti P. Sandulli, L’esodo incentivato, in M. Cinelli, G. Ferraro, O. Mazzotta (a cura di), Il nuovo mercato del lavoro dalla riforma Fornero alla legge di stabilità, Giappichelli, 2013, pp. 562 ss.) è un meccanismo di esodo anticipato che può essere utilizzato dalle aziende con organico superiore ai 15 dipendenti. Nel caso in cui vi sia un’eccedenza di personale, tali imprese possono stipulare un accordo con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello aziendale per incentivare l’uscita dei lavoratori cui manchino non più di 7 anni al raggiungimento dei requisiti per la pensione di vecchiaia o anticipata (la previsione originaria prevedeva un periodo di 4 anni, che l’art. 1, comma 160, l. n. 205/2017, ha poi esteso, in via temporanea dal 1° gennaio 2018 al 31 dicembre 2026). Tale istituto pone in capo all’impresa l’obbligo di versare all’Inps la provvista finanziaria necessaria per erogare l’assegno di isopensione, il cui ammontare equivale alla prestazione pensionistica che spetterebbe al momento della risoluzione del rapporto per l’intero periodo necessario alla maturazione dei requisiti per il pensionamento, cui deve essere aggiunta la contribuzione figurativa correlata.
Sebbene con tale accordo i lavoratori non subiscono variazioni negative del trattamento pensionistico, che resta uguale a quello che avrebbero percepito continuando a lavorare, tutti gli oneri sono carico dell’azienda.
Anche l’assegno straordinario erogato dai fondi di solidarietà bilaterali (ex artt. 26, comma 9, lett. b e 27, comma 5, lett. f, d.lgs. n. 148/2015) presuppone la conclusione di un accordo tra datore di lavoro e rappresentanze sindacali aziendali (o in mancanza territoriali) per l’attuazione dei processi di agevolazione all’esodo. In tal caso, la prestazione è riservata ai lavoratori che raggiungano i requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato entro i 5 anni successivi alla risoluzione del rapporto di lavoro (tale termine era stato portato a 7 anni nel periodo dal 2016 al 2019 con riferimento al Fondo del settore del credito ordinario e cooperativo – cfr. msg. Inps n. 5100/2016 e msg. Inps n. 3267/2017 – e sino al 2022 per il Fondo del credito ordinario – msg. Inps n. 3401/2022). Tale indennità è erogata dall’Inps per conto dei fondi medesimi, ma è finanziata dai datori di lavoro interessati mediante pagamento di una contribuzione c.d. straordinaria di ammontare pari al fabbisogno di copertura degli assegni straordinari erogabili e della relativa contribuzione correlata. A tale costo potrebbe aggiungersi, per scelta del datore di lavoro, anche quello necessario al riscatto e/o alla ricongiunzione di periodi contributivi antecedenti l’ingresso del lavoratore al fondo (art. 22, comma 3, d.l. n. 4/2019).
Una delle peculiarità di tale scivolo pensionistico è che esso ha un ambito soggettivo limitato, perché può essere fruito unicamente dai lavoratori dipendenti di imprese iscritte ai fondi bilaterali di solidarietà i cui atti istitutivi contemplino l’assegno straordinario tra le prestazioni erogabili (così è per i Fondi di solidarietà del credito ordinario, del credito cooperativo, dei tributi erariali, di Poste Italiane, di Ferrovie dello Stato italiane, delle imprese assicuratrici e società di assistenza, nonché di Trento, mentre gli altri Fondi istituiti non prevedono tale misura).
L’assegno straordinario può essere erogato dai fondi di solidarietà bilaterali anche ai lavoratori che maturino i requisiti per accedere ai trattamenti di pensione anticipata c.d. quota 100, quota 102 e quota 103, ma esclusivamente a condizione che il datore di lavoro adempia agli accordi collettivi aziendali che determinano il mantenimento dei livelli occupazionali (art. 22, commi 1 e 2, d.l. n. 4/2019; su cui v. circ. Inps n. 10/2019 e n. 27/2023).
Infine il c.d. APE sociale consiste in una forma di anticipo pensionistico che si sostanzia in un sussidio economico concesso a domanda degli interessati e rivolto a specifiche categorie di lavoratori considerati meritevoli di una particolare tutela.
Tale strumento, inizialmente previsto sino al termine del 2018 (art. 1, comma 179, l. n. 223/2016), è stato più volte prorogato e, da ultimo, è stato esteso anche al 2024 (art. 1, comma 136, l. n. 213/2023), ma nel tempo è divenuto sempre meno accessibile a causa dell’inasprimento dei requisiti d’accesso e delle ipotesi di incumulabilità e incompatibilità con alte prestazioni.
I soggetti che possono fruire della prestazione, interamente a carico dell’Inps, sono i lavoratori (dipendenti sia del settore pubblico che privato, parasubordinati e autonomi, ad esclusione dei liberi professionisti iscritti ad ordini e collegi) che siano in condizione di svantaggio, in quanto addetti ad attività gravose, invalidi civili o caregivers ovvero i disoccupati che abbiano esaurito le prestazioni di disoccupazione loro spettanti, a condizione che abbiano raggiunto l’età di 63 anni e 5 mesi (soglia, quest’ultima, aumentata dalla l. n. 213/2023 rispetto alla previgente di 63 anni) e possano vantare un’anzianità contributiva minima di 30 anni ovvero 36 anni per i lavoratori impegnati in mansioni usuranti.
L’APE sociale consiste in un assegno di accompagnamento alla pensione di vecchiaia che viene corrisposto in quote mensili e il cui ammontare è pari all’importo della rata mensile della pensione calcolata al momento dell’accesso alla prestazione (art. 1, comma 181, l. n. 232/2016) con un tetto massimo mensile di 1.500 euro lordi non rivalutabili annualmente.
Stanti le caratteristiche delle prestazioni appena descritte è agevole comprendere perché l’esodo pensionistico connesso al contratto di espansione fosse una misura di maggior favore per le imprese e i lavoratori e altresì come la sua mancata riproposizione per il 2024 non possa essere vista con favore. Lo scivolo pensionistico da ultimo citato, infatti, sebbene comportasse un costo più alto per la spesa pubblica rispetto alla isopensione e all’assegno straordinario, era in grado di innescare un meccanismo virtuoso, che ben aveva fatto (e farebbe) il legislatore a incentivare, perché capace di favorire il ricambio generazionale e, al contempo, il c.d. invecchiamento attivo, riuscendo a dare risposta a due esigenze fortemente avvertite quali il supporto alla ageing workforce e ai giovani alla ricerca di occupazione.
Claudia Carchio
Assegnista di Ricerca
Università degli Studi di Udine