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Bollettino ADAPT 19 febbraio 2024, n. 7
Il lavoro agile – a cui si è largamente fatto ricorso durante il periodo pandemico nell’ottica di ridurre i contatti fra le persone e contenere la diffusione del virus – costituisce un tema che ancora affolla l’agenda politica e le aule di giustizia.
Sotto il primo profilo l’art. 18-bis del D.L. n. 145/2023, convertito nella L. n. 191/2023 con riferimento al solo lavoro privato ha nuovamente prorogato il termine – fino al 31 marzo 2024 – entro il quale viene riconosciuto al lavoratore c.d. fragile e al genitore di figli minori di 14 anni l’espresso diritto a svolgere la propria prestazione lavorativa in modalità agile. Quanto al settore pubblico, con una direttiva del 29 dicembre 2023 il Ministero della funzione pubblica ha solo fortemente raccomandato alle pubbliche amministrazioni di garantire l’accesso a tale modalità di lavoro a quei lavoratori «che documentino gravi, urgenti e non altrimenti conciliabili situazioni di salute, personali e familiari» (per un primo commento alla direttiva v. F. Di Gioia, Lavoro agile per i dipendenti pubblici cd. “fragili”: uno sguardo alla nuova direttiva del ministero della funzione pubblica, in Boll. ADAPT, 29 gennaio 2024, n. 4).
Al di là delle criticità che emergono dal susseguirsi di proroghe e raccomandazioni, l’adozione di questi due provvedimenti spinge a rileggere due pronunce risalenti al dicembre dell’anno passato, la prima del Tribunale di Roma e la seconda del Tribunale di Trieste, che oggi appaiono di estrema attualità poiché in entrambi i casi i Giudici del lavoro sono stati chiamati a vagliare l’(in)esistenza in capo alle ricorrenti del diritto a svolgere la propria attività lavorativa in modalità agile, nel primo caso facendo ricorso alla tutela antidiscriminatoria e all’obbligo di “accomodamenti ragionevoli”, e nel secondo, valorizzando la normativa emergenziale prorogata.
La sentenza 18.12.2023, n. 32956 del Tribunale di Roma
Una lavoratrice affetta da fibromialgia muscolo tensiva e da obesità ricorreva ex art. 700 c.p.c. avanti al Giudice del lavoro di Roma deducendo di aver svolto la propria prestazione per cinque anni in regime di telelavoro, lavorando in presenza per sole quattro volte al mese. Tuttavia, a partire da maggio 2021, il datore, pur confermando la modalità di lavoro a distanza, comunicava che la prestazione si sarebbe dovuta svolgere per due giorni a settimana in presenza, aumentati successivamente a tre. Vane erano state le plurime richieste avanzate dalla lavoratrice di continuare a svolgere la propria prestazione con modalità di telelavoro, motivate da uno stato di salute precario. Rebus sic stantibus, la ricorrente chiedeva, previo riconoscimento della condizione di disabilità a causa delle patologie da cui era affetta, che venisse dichiarata la discriminatorietà della modalità di svolgimento della prestazione lavorativa imposta – lavoro in presenza per tre giorni alla settimana – e condannare la società ad adibirla «a modalità di esecuzione della prestazione lavorativa compatibili con il proprio stato di salute quali il telelavoro domiciliare e/o il lavoro agile senza rientri ovvero con un massimo di quattro rientri mensili».
Il Giudice – nel profilo che qui rileva – ha accolto il ricorso ritenendo sussistenti il periculum in mora e il fumus boni iuris. La sentenza è interessante e, come detto, di estrema attualità in quanto il Giudice del lavoro ha considerato riconducibile alla nozione di disabilità la patologia da cui era affetta la ricorrente senza ricorrere a un accertamento medico-legale.
Richiamandosi alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, il Tribunale romano ha ricordato che una menomazione o una minorazione fisica, psichica o mentale integra la condizione di disabilità qualora sia tale da ostacolare la partecipazione del lavoratore alla vita professionale in condizione di parità con gli altri lavoratori. L’adozione di questa prospettiva consente, quindi, di ampliare l’ambito di operatività della tutela riconosciuta ai disabili riconducendovi non solo quelle situazioni di «disabilità conclamata» ma, altresì, tutti quei casi in cui le concrete modalità di manifestazione della patologia integrino un «obiettivo ostacolo» alla vita lavorativa «alterando di fatto il rapporto di uguaglianza con gli altri lavoratori».
L’esito positivo di questa attività sussuntiva costituisce la chiave per accedere alla tutela antidiscriminatoria da cui consegue, ai sensi dell’art. 5 Direttiva 2000/78/CE e dell’art. 3 co. 3-bis d.lgs. n. 216/2003, l’obbligo datoriale di adottare “accomodamenti ragionevoli” tra i quali rientra, secondo il Giudice, l’accesso al telelavoro o al lavoro agile (cfr. M. Brollo, Lavoro agile per i lavoratori fragili lezioni dalla pandemia, in ADL, 2022, n. 3, pp. 420 ss.). Ricomprendere il telelavoro e il lavoro agile nell’ampia categoria di accomodamenti ragionevoli ha come intrinseca conseguenza quella di qualificare come discriminatorio il rifiuto datoriale ad accordare al lavoratore disabile queste modalità di esecuzione della prestazione.
Inoltre, secondo il Tribunale, il perdurante svolgimento del lavoro in presenza – nella quantità imposta alla ricorrente – sarebbe stato potenzialmente idoneo non solo ad aggravarne le condizioni di salute sotto il profilo dell’integrità psicofisica ma anche a pregiudicare il suo diritto alla professionalità, altrimenti compromesso a causa delle assenze, anche prolungate, provocate dalla prolungata impossibilità di svolgere la prestazione lavorativa in presenza.
L’ordinanza 21.12.2023 del Tribunale di Trieste
Nel caso sottoposto alla cognizione del Tribunale di Trieste un’impiegata, affetta da oltre dieci anni da artrite reumatoide da cui era conseguita un’invalidità con riduzione della capacità lavorativa pari al 50%, aveva lavorato in modalità agile per cinque giorni alla settimana a fronte di un accordo individuale a termine ex art. 18 L. 81/2017, successivamente non rinnovato. A causa di comprovate esigenze aziendali e organizzative legate a un esponenziale aumento della mole di lavoro, la società comunicava alla dipendente che si sarebbe reso necessario implementare la sua attività lavorativa presso la sede aziendale per tre giorni alla settimana non essendo più possibile delegare ai colleghi lo svolgimento di attività materiali – rientranti nelle mansioni a lei assegnate – da svolgersi necessariamente in presenza.
La lavoratrice ricorreva avanti al Giudice del lavoro invocando l’applicazione dell’art. 90 D.L. n. 34/2020 (convertito con modificazioni nella L. 77/2020) che riconosce il diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile, oltre che ai genitori di figli di età inferiore a 14 anni, anche a quei lavoratori che «sulla base delle valutazioni dei medici competenti» risultano «maggiormente esposti a rischio di contagio da virus SARS-CoV-2, in ragione dell’età o della condizione di rischio derivante da immunodepressione, da esiti di patologie oncologiche o dallo svolgimento di terapie salvavita o, comunque, da comorbilità che possono caratterizzare una situazione di maggiore rischiosità accertata dal medico competente (…)».
Nel risolvere la questione, il Tribunale ha chiarito preliminarmente come il legislatore non abbia in realtà inteso riconoscere al lavoratore fragile un diritto assoluto di accesso al lavoro agile, ammettendolo nei soli limiti di compatibilità fra questa particolare modalità di esecuzione della prestazione e la mansione svolta dal dipendente. La previsione di questo limite consente al Giudice di poter vagliare la legittimità dell’eventuale rifiuto datoriale a consentire lo svolgimento della prestazione in modalità agile. Secondo il Tribunale triestino l’ampiezza del sindacato giurisdizionale non si limita, tuttavia, a una mera valutazione di compatibilità fra le mansioni e il lavoro agile ma si spinge fino a valutare il rispetto del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto, inteso come «obbligo di solidarietà» gravante su entrambe le parti del rapporto.
L’esito del giudizio è stato il rigetto del ricorso. Contemperando le esigenze organizzative dell’impresa con il principio di buona fede – inteso come «salvaguardia dell’interesse della controparte» nella misura in cui ciò non determini un apprezzabile sacrificio a latere datoris – il Giudice ha ritenuto la condotta datoriale conforme al dettato normativo dell’art. 90, non qualificandola come una negazione del lavoro agile bensì una sua concessione parziale, posto che il diritto sancito dal legislatore vede il suo presupposto nella patologia da cui è affetta la ricorrente e non nella gravità della stessa o nel suo progressivo aggravamento e che questi due profili afferiscono a un differente piano qual è quello «dell’idoneità alla mansione e dell’impossibilità della stessa», irrilevante ai fini del giudizio proposto.
Alcune considerazioni conclusive
Entrambi i provvedimenti presentano presupposti di fatto simili: due lavoratrici, affette da una patologia tale da rendere gravoso lo svolgimento della propria attività lavorativa in presenza, si vedono ridotta notevolmente la possibilità di lavorare a distanza. Tuttavia, le due pronunce si differenziano non solo per gli opposti esiti a cui giungono, ma soprattutto per il percorso argomentativo adottato.
Il Tribunale di Roma ricorre, infatti, alla nozione eurounitaria di disabilità che, una volta integrata, costituisce il grimaldello per accedere alla disciplina antidiscriminatoria, prescindendo da una valutazione medico-legale. Il Tribunale di Trieste invoca, invece, la normativa emergenziale che riconosce il diritto al lavoro agile a certe categorie di lavoratori solo a seguito di un giudizio positivo da parte del medico competente, a cui si aggiunge l’ulteriore limite della compatibilità delle mansioni di cui si è detto.
Dal confronto tra le due pronunce la prova liberatoria sancita dall’art. 90 D.L. 34/2020 appare meno stringente e più facilmente assolvibile rispetto a quella richiesta dall’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE coinvolgendo quest’ultima profili ulteriori e più ampi quali, ad esempio, le dimensioni dell’azienda, il fatturato e/o l’eventuale stato di crisi (cfr. D. Garofalo, La tutela del lavoratore disabile nel prisma degli accomodamenti ragionevoli, in ADL, 2019, n. 6, p. 1230). Sembra, infatti, che il datore di lavoro, per evitare che il rifiuto di accomodamenti ragionevoli integri una condotta discriminatoria, debba fornire una prova liberatoria (cioè volta a evidenziare la sproporzione fra provvedimenti da adottare e costo finanziario degli stessi) notevolmente più ampia e più difficile da soddisfare rispetto alla mera verifica di compatibilità delle mansioni con il lavoro agile e di rispetto del principio di buona fede.
Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Siena