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Bollettino ADAPT 4 marzo 2024, n. 9
Il mercato del lavoro sta attraversando un periodo di profonda trasformazione. Si tratta di un’affermazione a volte quasi banalizzata, di cui spesso si è fatto un uso eccessivo e che tuttavia prende spunto da alcune evidenze difficili da mettere in discussione. La prima di queste è il fatto che, negli ultimi 25 anni circa, l’impatto della digitalizzazione e dell’innovazione tecnologica è stato certamente in molti casi dirompente, e continua ad esserlo senza accenni a stabilizzarsi. Basti pensare in questo senso ai recenti studi relativi all’impatto dell’intelligenza artificiale sull’occupazione e sulla società in generale: un tema che oggi occupa una buona parte del dibattito pubblico ma che solamente pochi anni fa non godeva della stessa considerazione, se non in ristrette cerchie di ricercatori che avevano intuito le possibili evoluzioni di una tecnologia dalle potenzialità enormi. Tecnologia il cui impatto, in realtà, poteva già essere intravisto sin dalla metà degli anni 90, ad esempio quando Deep Blue, il software di intelligenza artificiale di IBM batté, in una serie di partite disputatesi in un anonimo centro congressi di Philadelphia, in Pennsylvania, il campione del mondo di scacchi, il russo Garry Kasparov.
A livello italiano, queste trasformazioni avranno, e stanno avendo, un forte impatto sulla struttura occupazionale pressoché a tutti i livelli, come confermato da uno studio dell’Università degli studi di Trento. Da questo punto di vista, intelligenza artificiale, Industria 4.0 o digitalizzazione colpiscono infatti spesso settori distinti della forza lavoro ed in modo diverso. Allargando l’orizzonte, tra i quattro e i sette milioni di lavoratori e lavoratrici potrebbero essere sostituiti dalla tecnologia. Le donne sarebbero meno esposte al rimpiazzo perché impiegate in settori (come scuola dell’infanzia, cura e assistenza) in cui è meno elevato l’impiego di robot. Ad esempio, proprio in riferimento all’impatto dell’automazione e della digitalizzazione, secondo Butera, gli operai si polarizzeranno da una parte fra “operai residuali” che svolgono compiti ancillari alle macchine oppure che non è conveniente o possibile far fare alle macchine, uomini e donne “di fatica” spesso immigrati, mentre dall’altra aumenteranno coloro che interagiranno con processi automatizzati ad alto livello di qualificazione, spesso diplomati e che controlleranno il processo produttivo assorbendo le varianze e attivando processi di comunicazione, cooperazione e condivisione di conoscenza. Questa seconda categoria di operai, altamente qualificati e che si stanno già ora dimostrando essere quelli più richiesti sul mercato del lavoro, nonché quelli più difficili da trovare, dovranno essere in grado di integrare sia hard che soft skills in un mix complementare di competenze in cui le seconde faranno sempre di più la differenza.
A questo punto però è necessario fare un passo indietro e chiedersi che cosa siano davvero le soft skills, e soprattutto quali sono gli strumenti in grado di dotare i giovani di queste qualità. Il dibattito sul primo punto è ampio e stratificato, e molto dipende molto dal settore di riferimento. Nonostante ciò, però, vi è un certo accordo nell’utilizzo di questo termine, che non ha un unico corrispettivo italiano, per indicare competenze personali trasversali come attitudini sociali, capacità linguistiche e comunicative, capacità di lavorare in team, capacità di elaborare un pensiero critico e altri tratti di personalità che caratterizzano le relazioni tra le persone. Si tratta quindi di un fenomeno socio-culturale, applicabile nella vita di tutti i giorni e non solo in ambito lavorativo e che comprende quindi capacità difficili da inquadrare in modo univoco: per un mediatore culturale o per un manager queste abilità potrebbero dirsi quasi parte di quelle considerate come hard skills in quanto indispensabili per svolgere il proprio lavoro, mentre per altre figure professionali si tratta di competenze che affiancano semplicemente le abilità e le conoscenze professionali, facilitando il lavoro e migliorando le performance. In entrambi i casi si tratta però di abilità che facilitano l’apprendimento, l’integrazione tra mansioni diverse all’interno di un’azienda, la capacità di individuare e risolvere problemi trasversali e non limitati ad un ristretto campo di intervento. In un contesto sempre più competitivo, dove complessi fenomeni di accelerazione del progresso tecnico e tecnologico già citati sempre più spesso innescano cambiamenti nelle modalità dell’attività lavorativa, proprio queste competenze trasversali fanno assumono una rilevanza strategica. Si tratta di considerazioni valide sia per le imprese che per le persone che devono orientare il proprio percorso personale e professionale.
Una volta data una breve, seppur certamente non esaustiva definizione di soft skills, è lecito chiedersi in quali contesti formativi un giovane può apprendere queste capacità e che ruolo può e deve avere l’istruzione terziaria non accademica in questo processo. Gli ITS vanno a colmare, in un certo senso con colpevole ritardo da parte soprattutto delle istituzioni, un anello che nella catena della filiera lunga professionalizzante era rimasto a lungo trascurato, risultando così largamente inefficace se comparato ai maggiori sistemi concorrenti europei. Il loro ruolo dovrebbe essere proprio quello di formare tecnici altamente specializzati, ma non per questo destinati a ricoprire profili ristretti o mansioni oltremodo specialistiche destinate a essere rapidamente superate dall’evoluzione tecnologica e organizzativa. Si tratta quindi di mestieri e professioni “a banda larga”, nella definizione proposta da Butera, che richiedono sì un alto livello di conoscenze, competenze e capacità utili per un ampio spettro di mansioni e al tempo stesso ad alto livello di specializzazione.
Per formare giovani in grado di ricoprire questo tipo di posizioni lavorative, posizioni che non scompariranno a causa dell’evoluzione tecnologica ma che richiederanno comunque un certo grado di adattabilità al cambiamento, gli ITS devono essere in grado di coniugare hard e soft skills all’interno del loro percorso formativo. Per fare ciò, sono sicuramente avvantaggiati dalla flessibilità e dalla struttura plurale delle Fondazioni, che permette di coniugare maestria ed abilità tecniche con una formazione della persona che consente di estenderne l’applicabilità oltre la singola mansione, incrementando così significativamente il valore aggiunto apportato dal lavoratore. Si tratta di un elemento qualificante di un ITS e dal quale dipende, almeno in parte, il successo dell’ITS stesso per svariate ragioni: un lavoratore che è in grado, grazie alle competenze trasversali di cui si fa portatore, di costruire una carriera professionale di successo è certamente di per sé un elemento positivo, ma non è l’unico. A questo si aggiunge il fatto che gli ITS puntano a formare lavoratori con capacità di coniugare professionalità e sensibilità distinte, guardando oltre il singolo stadio della filiera produttiva favorendo così lo sviluppo di elementi di innovazione quanto mai preziosi, soprattutto in un contesto, come quello italiano, fatto di piccole e medie imprese.
Il contributo dell’istruzione terziaria non accademica come fattore in grado di costruire le soft skills utili per affrontare la transizione verso le tecnologie 4.0 è stato analizzato in un articolo pubblicato da qtimes. Dal contributo di Luisa Aiello emerge che proprio la possibilità offerta agli studenti di muoversi a cavallo tra contesto lavorativo e formativo permette di attivare dei transfer che combinano le dimensioni dell’esperienza alla base dell’apprendimento. Questo processo educativo/formativo permette di orientare e negoziare l’incorporazione delle tecnologie nelle pratiche lavorative, formando lavoratori in grado di agire al confine tra diverse professionalità e stakeholder, facendosi così portatori di quel valore aggiunto di cui le imprese sono sempre più alla ricerca. Valore aggiunto che poi, come dimostrato da numerose ricerche, si dimostra un fattore determinante nell’accrescere le possibilità di crescita professionale e di carriera.
Gli ITS possono però farsi promotori di un altro strumento che, secondo gli autori di un articolo pubblicato sul Journal of Vocational Education & Training, si dimostra estremamente efficace proprio perché ideato per muoversi a cavallo tra il contesto lavorativo e formativo: l’apprendistato. Si tratta, secondo gli autori, non solo di uno strumento utile alla transizione scuola-lavoro, ma anche alla transizione più ampia tra gioventù ed età adulta. Gli apprendisti, non limitandosi durante il percorso ad acquisire esclusivamente competenze tecniche, affrontano sfide personali e professionali significative che plasmano le loro capacità e identità e contribuiscono a sviluppare capacità trasversali utili, come sottolineato, sul luogo di lavoro come al di fuori di questo, e che vanno a formare di un bagaglio personale che molto difficilmente andrà incontro ad alcun tipo di obsolescenza nel corso della carriera professionale. L’apprendistato è estremamente funzionale nel favorire lo sviluppo di competenze di carattere socio-culturale proprio perché è esso stesso un modello di apprendimento socio-culturale.
I datori di lavoro, le aziende coinvolte, gli insegnanti ed i tutor giocano in questo processo un ruolo cruciale. L’apprendistato assume quindi un valore sociale che trascende la sola sfera lavorativa, ed in particolare è interessante soffermarsi sul ruolo che proprio le aziende e gli imprenditori svolgono in tal senso. La sfida è senza dubbio far sì che questi si sentano in qualche modo parte della comunità educativa, e non solo soggetti passivi destinati a raccogliere i frutti, più o meno maturi, del sistema. Questo approccio li metterebbe nella condizione di elaborare e di modellare, proprio attraverso l’apprendistato e le connessioni che nel contesto italiano proprio le imprese hanno con gli ITS, la formazione stessa delle soft skills richieste dal mercato in un circolo virtuoso dal quale traggono beneficio tutte le parti coinvolte.
In questo senso va accolto con favore l’inserimento dell’apprendistato, a seguito della Legge 99/2022 a cui è recentemente stato dato seguito tramite decreti attuativi, tra gli indicatori di realizzazione e di risultato dei percorsi formativi ITS Academy. Si tratta di un riconoscimento importante, che si inserisce in un disegno più ampio di promozione dello stesso anche a fronte proprio dell’utilità dimostrata nel favorire lo sviluppo delle soft skills e delle competenze trasversali tra gli studenti. Non sono molti gli strumenti in grado di coniugare con questa efficacia crescita professionale e personale e gli ITS, grazie alla posizione privilegiata che ricoprono, possono giocare un ruolo di primo piano nell’affrontare questa complessa ma importante sfida.
Michele Corti
Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro
Università degli Studi di Siena