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Bollettino ADAPT 13 maggio 2024, n. 19
Si discute ancora – dentro e fuori le aule dei tribunali – dei requisiti di validità della conciliazione in sede sindacale. La disputa interpretativa origina dalla nota sentenza del Tribunale di Roma, sez. lavoro 8 maggio 2019, n. 4354, che ha accertato l’invalidità di un verbale di conciliazione sindacale sottoscritto senza seguire le prescrizioni del contratto collettivo (sede unica e modalità operative).
In questa sentenza il giudice ha ritenuto che la ratio dell’art. 412 ter c.p.c., richiamato dall’art. 2113, comma 4, cod. civ., è quella di «assicurare, anche attraverso l’individuazione della sede e delle modalità procedurali, la pienezza di tutela del lavoratore in considerazione dell’incidenza che ha la conciliazione sindacale sui suoi diritti inderogabili e dell’inoppugnabilità della stessa. La norma codicistica, dunque, attribuisce valenza di conciliazioni in sede sindacale solo a quelle conciliazioni che avvengano con le modalità procedurali previste dai contratti collettivi e in particolare da quelli sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative».
Per risolvere la querelle interpretativa, quella che vorrebbe ammettere le conciliazioni sindacali anche al di fuori delle procedure previste dai contratti collettivi (per gli approfondimenti sui dibattiti si rinvia a G. Piglialarmi, in Labor, Rivista 5/2019 ed anche, V. Speziale, Gino Giugni e la conciliazione in sede sindacale, in WP D’Antona, 415/2020, di recente anche F. Avanzi, in Labor 16 aprile 2024), in primis occorre muovere necessariamente, de iure condito, dalle norme dello stesso Codice di procedura civile.
L’articolo 410, nel delineare il quadro generale del tentativo di conciliazione, individua nell’organo “commissione di conciliazione”, il soggetto preposto a trattare la lite ovvero la transazione. La commissione di conciliazione (organo collegiale) è necessariamente istituita, con i criteri della competenza territoriale (art. 413 c.p.c.), presso gli Ispettorati Territoriali del Lavoro.
Con una compiuta disciplina, poi, lo stesso articolo 410 definisce le modalità (formalità) di funzionamento dell’intera procedura: composizione della commissione, validità della riunione, modalità per la richiesta dell’avvio del tentativo di conciliazione (istanza con la descrizione dei fatti), memoria difensiva, tempistiche per la comparizione delle parti ed eventuale assistenza delle medesime parti coinvolte.
Ed è a questo punto che entra in gioco il discusso articolo 411 c.p.c., attraverso cui una parte della dottrina vorrebbe di fatto ammettere l’intervento del singolo rappresentante sindacale che agirebbe, in assenza di regole giuridiche, al di fuori delle procedure previste dai contratti collettivi e dunque anche presso sedi fisiche non preventivamente individuate: la sede dell’azienda, lo studio del Consulente del Lavoro o dell’Avvocato. Di fatto il rappresentante sindacale, in questa prassi operativa, è attivato da una semplice “chiamata” dello stesso datore di lavoro interessato o di un suo delegato consulente legale.
La tesi è sostenuta, e giustificata, sulla base di un laconico passaggio normativo dell’articolo 411 del Codice di procedura civile, che però è finalizzato ad escludere l’applicazione di tutte quelle “formalità” previste dall’articolo 410 c.p.c. e valide solo nell’ipotesi di conciliazione intervenuta in sede amministrativa presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro (composizione della commissione, validità della riunione, ecc.). Formalità che dunque non si applicano alla conciliazione sindacale, poiché le ulteriori e diverse modalità sono affidate alla contrattazione collettiva dallo stesso legislatore processuale per mezzo dell’art. 412 ter c.p.c.
Infatti, «se il tentativo di conciliazione si è svolto in sede sindacale, ad esso non si applicano le disposizioni di cui all’articolo 410», poiché in via sussidiaria, «le sedi e […] le modalità [sono] previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative» (412 ter c.p.c.).
Non di meno, per confutare ancora quella dottrina – quella che isola l’assunto normativo, apodittico, che prevede la non applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 410 e dunque considera valide le conciliazioni sindacali ottenute al di fuori delle procedure contrattuali collettive – occorre una ulteriore riflessione e analisi della medesima disposizione codicistica dell’articolo 411 del Codice di procedura civile. Invero, quando la conciliazione è esperita ai sensi dell’articolo 410 (presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro) il giudice, su istanza della parte interessata, dichiara esecutivo il verbale. Dunque, il giudice non effettua alcuna verifica formale quando la conciliazione è intervenuta presso l’organo amministrativo.
Viceversa, laddove la conciliazione è avvenuta in sede sindacale, il giudice deve, preventivamente all’emissione del decreto di cui all’art. 411 c.p.c., «accerta[re] la regolarità formale» [de]le sedi e […] modalità previste dai contratti collettivi» (412 ter c.p.c.).
E allora, se alla conciliazione intervenuta in sede sindacale non si applicano le formalità previste per la conciliazione amministrativa (non si applicano le disposizioni di cui all’articolo 410), le uniche regolarità formali che il giudice dovrà accertare, prima dell’emissione del decreto, se non sono quelle delegate alla contrattazione collettiva dall’art 412 ter c.p.c., a quali ulteriori formalità farebbe riferimento il Codice?
È dunque evidente, sul piano processuale, che le sedi e le modalità per considerare valida, esecutiva e inoppugnabile la conciliazione sindacale, sono solo quelle previste dai contratti collettivi delegati appositamente dal Codice di procedura civile ex art 412 ter c.p.c.
In via sussidiaria, e in assenza di specifiche procedure contrattuali collettive, le parti (datore di lavoro e lavoratore) potranno tranquillamente rivolgersi all’organo amministrativo dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro; tra l’altro con un vantaggio non trascurabile, il verbale di conciliazione verrà reso esecutivo dal giudice senza necessità di alcuna verifica formale rispetto alla procedura seguita in sede amministrativa (sede, modalità e competenza territoriale come individuati dagli articoli 410 e 413 c.p.c.).
Ed è in tal senso orientata anche una recentissima giurisprudenza pratica del giudice di legittimità che, nell’ambito di una conciliazione intervenuta in sede aziendale, alla presenza di un rappresentante sindacale e di un Consulente del Lavoro, ha disposto per la nullità del verbale, poiché la sede aziendale non può essere annoverata tra le sedi protette, «avente il carattere di neutralità indispensabile a garantire, unitamente alla assistenza prestata dal rappresentante sindacale, la libera determinazione della volontà del lavoratore (Cassaz. Ord. N. 10065/2024)».
Per concludere e per sostenere ulteriormente la tesi – quella che vorrebbe evitare il “proliferare” incontrollato delle procedure relative alle «rinunzie e transazioni che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi», (art. 2113 cod. civ.) – si segnala, con effetto non antinomico, un ulteriore dato normativo presente all’interno del nostro ordinamento giuridico in relazione al collegio di conciliazione. Trattasi, come noto, del collegio chiamato ad intervenire rispetto alle sanzioni disciplinari, di natura conservativa, irrogate al Lavoratore. In tali fattispecie la sussidiarietà, rispetto alle procedure previste dai contratti collettivi, è garantita dall’intervento dell’autorità giudiziaria, oppure, (in via sussidiaria), attraverso la promozione di un collegio di conciliazione appositamente istituto presso l’organo amministrativo dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro. Anche in quest’ultima fattispecie, il legislatore interviene con una compiuta disciplina che non ammette ulteriori modalità e sedi se non quelle espressamente elencate all’articolo 7, della legge 300/1970.
Candido Mogavero
Consulente del Lavoro
ADAPT professional fellow