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Bollettino ADAPT 7 ottobre 2024, n. 35
Con sentenza n. 13059 del 13 maggio 2024, la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla qualificazione giuridica del rapporto di lavoro degli psicologi penitenziari, esprimendo il seguente principio di diritto: “il rapporto di lavoro degli psicologi carcerari ex art. 80, comma 4, della l. n. 354/1975, incaricati presso gli istituti di prevenzione e di pena, sia in ragione della disciplina normativa, sia dell’assetto negoziale, è un rapporto di lavoro autonomo, atteso che, da un lato, la disciplina pone in evidenza che il legislatore ha scelto d’instaurare rapporti di lavoro autonomo; dall’altro, che le modalità concrete del rapporto – in particolare l’organizzazione del lavoro secondo il modulo dei turni, l’obbligo di attenersi alle direttive impartite dal direttore del carcere, la necessità di segnalare e giustificare assenze – non integrano indici della subordinazione, ma sono espressione del necessario coordinamento, che caratterizza il rapporto, con l’attività dell’Amministrazione e con la complessa realtà del carcere. Tale rapporto di lavoro va, quindi, distinto da quello di natura subordinata degli psicologi dipendenti di ruolo, che esercitano funzioni sanitarie nell’ambito del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e del Dipartimento della giustizia minorile del Ministero della giustizia”.
Nello specifico, la Corte di Cassazione, ripercorrendo sia la normativa che regola queste specifiche figure professionali sia la giurisprudenza formatasi su profili professionali in condizioni analoghe, ha dichiarato infondato il ricorso avverso le pronunce delle corti territoriali, che avevano confermato la natura autonoma dell’incarico svolto dalla ricorrente presso un istituto penitenziario romano. Ricorda, infatti, la Corte che gli psicologi penitenziari possono essere, alternativamente, (1) psicologi dipendenti di ruolo o (2) psicologi ex art. 80 l. n. 354/1975 (Ordinamento Penitenziario), vale a dire professionisti esperti in psicologia di cui l’amministrazione penitenziaria si avvale “per lo svolgimento delle attività di osservazione e di trattamento” e cui devono essere corrisposti “onorari proporzionati alle singole prestazioni effettuate” (quarto comma del citato art. 80 OP), categoria cui apparteneva la ricorrente. Come si ricorda nella pronuncia, la procedura per la selezione di quest’ultima tipologia di professionisti è affidata ai Provveditorati Regionali, che predispongono graduatorie cui le amministrazioni penitenziarie attingono, stipulando accordi individuali col professionista. Proprio tale procedura selettiva evidenzia, secondo il Giudice, l’estraneità di dette figure al “personale inserito stabilmente nei ruoli organici dell’amministrazione penitenziaria”.
Con riferimento alle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, la Corte pone l’attenzione sul particolare contesto in cui questa si svolge. Infatti, analogamente a quanto osservato con riferimento alle guardie infermieristiche ex art. 53 della l. 740/1970 nella nota sentenza della Corte Costituzione n. 76/2015, anche nel caso dei psicologi penitenziari non di ruolo “i principali elementi che potrebbero in astratto rilevare quali indici di subordinazione, ovvero l’organizzazione del lavoro secondo il modulo dei turni, l’obbligo di attenersi alle direttive e alle prescrizioni impartite dal direttore del carcere e di comunicare le proprie assenze, la percezione di una retribuzione corrisposta secondo cadenze temporali prestabilite e lo svolgimento della prestazione nei locali e con gli strumenti messi a disposizione dall’Amministrazione penitenziaria (elementi che si riscontrano anche con riguardo alla figura dello psicologo esperto) non possono, nello specifico di una attività svolta all’interno di un carcere, qualificare il rapporto di lavoro in termini di lavoro subordinato”. In particolare, secondo il giudice di legittimità, tali condizioni per lo svolgimento della prestazione lavorativa risponderebbero alla esigenza di “coordinare l’attività professionale in discorso con il più complesso sistema nel quale la stessa si innesta”.
Nel caso di specie, né la ricorrente né l’organo giudicante paiono mettere in dubbio la legittimità costituzionale dell’art. 80 l. 354/1975 con riferimento al principio di rango costituzionale della indisponibilità del tipo contrattuale (che non permette al legislatore di disporre delle tutele che l’ordinamento giuridico riconosce a rapporti di lavoro di fatto di natura subordinata). La questione sembrerebbe piuttosto vertere sulla intensità della eterodirezione e sulla nozione di coordinamento. A tal riguardo si osserva che, se l’autonomia organizzativa del lavoratore, nel dato normativo, sembrerebbe essere piuttosto ampia (cfr. quanto previsto in merito al lavoro parasubordinato dall’art. 409, n. 3 c.p.c., secondo il quale “La collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa”), nel caso concreto qui in analisi sembrerebbe essere significativamente compressa da esigenze di pubblica sicurezza. L’orientamento della giurisprudenza nei casi di professionisti che operano all’interno di strutture penitenziarie e simili sembrerebbe dunque essere dettato non solo dalla analisi delle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa ma anche da un legittimo contemperamento di principi e diritti costituzionali non altrimenti conciliabili.
Federica Capponi
Assegnista di ricerca Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia – ADAPT Senior Fellow