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Bollettino ADAPT 7 ottobre 2024 n. 35
Sta già facendo discutere l’art. 19 del nuovo DDL 1532-bis – al vaglio del Parlamento – che nell’integrare l’art. 26 del d.lgs. n. 151 del 2015 prevede che “in caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a quindici giorni, il datore di lavoro ne dà comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che può verificare la veridicità della comunicazione medesima. Il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina prevista dal presente articolo”. La disposizione precisa anche che il rapporto non si intende risolto “se il lavoratore dimostra l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza” (cfr. DDL A.C. 1532-bis-A).
È diffusa l’idea che questa disposizione non tuteli per nulla la posizione del lavoratore e che anzi potrebbe riportare “in vita” l’insana pratica delle dimissioni in bianco, che invece uno dei decreti attuativi del Jobs Act aveva debellato. Ma come stanno effettivamente le cose?
Fino a qualche decennio fa, infatti, poteva capitare che il datore di lavoro chiedesse al lavoratore di firmare un foglio in bianco sul quale, al momento del bisogno, l’imprenditore avrebbe potuto aggiungere la data per formalizzare le dimissioni del dipendente. L’art. 26 del d.lgs. n. 151 del 2015 pone fine a questa pratica, introducendo una procedura telematica obbligatoria volta a tutelare la posizione del lavoratore.
Sennonché, fin dai primi mesi successivi all’entrata in vigore del Decreto Ministeriale del 15 dicembre 2015 – volto a dare attuazione alle concrete modalità attraverso le quali poter presentare le dimissioni per via telematica – da più parti venne evidenziato come l’art. 26 fosse in realtà “monco” perché non forniva alcuna indicazione per quei casi in cui il lavoratore abbandonava il posto di lavoro o comunicava informalmente al datore di lavoro la volontà di non voler più lavorare senza però adempiere alla procedura telematica imposta dalla legge. La mancanza di una disciplina specifica sul punto aveva dato luogo ad un vero e proprio corto circuito: da un lato, il lavoratore risultava ancora alle dipendenze del datore di lavoro; dall’altro, il datore di lavoro risultava ancora parte di un contratto rispetto al quale l’altra parte aveva manifestato di fatto la volontà di recedere. In tali casi, l’unica via d’uscita era quella di dover procedere al licenziamento disciplinare, pagando anche il ticket di licenziamento introdotto dalla Legge Fornero (art. 2, co. 34-35 della legge n. 92 del 2012) e realizzando così quella condizione necessaria per consentire al lavoratore di accedere alla Naspi (che, in caso di dimissioni volontarie, non avrebbe ottenuto).
Non sono mancate, per la verità, proposte interpretative tese a superare questo stato di cose, evidenziando come l’art. 1, comma 6, lett. g) della legge-delega n. 183 del 2014 chiedesse al legislatore delegato non solo di istituire un sistema attraverso il quale garantire data certa e autenticità della manifestazione di volontà di dimettersi ma anche di “assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore”. Sebbene in parte inattuata, la legge-delega avrebbe comunque potuto spiegare degli effetti se letta in combinato disposto con l’art. 1344 c.c. (così C. Mogavero, Nuova procedura delle dimissioni on line: una diversa lettura delle norme, in Bollettino ADAPT 21 marzo 2016, n. 10).
Tuttavia, per poter “sanare” definitivamente questa anomalia, il Ministro Calderone ha deciso di integrare l’art. 26 del d.lgs. n. 151 del 2015, andando così a dare concreta e compiuta attuazione alla legge-delega del 2014. Una integrazione che possiamo definire certamente “ragionevole” anche alla luce di quello che cominciava ad emergere dal contenzioso (è a molti nota la sentenza del Tribunale di Udine del 27 maggio 2022, con la quale il giudice avrebbe evidenziato come ritenere legittime le dimissioni solo attraverso il rispetto della procedura telematica senza dare rilievo anche ai comportamenti concludenti “si finirebbe […] per coartare senza valido motivo la libera esplicazione dell’autonomia imprenditoriale, surrettiziamente imponendo al datore di lavoro di farsi carico dei rischi (la giustificazione in un ipotetico giudizio) e dei costi (il c.d. ticket NASPI) di un atto di gestione del singolo rapporto lavorativo”, cioè “il licenziamento disciplinare”).
In sintesi, dunque, l’integrazione dell’art. 26 del d.lgs. n. 151 del 2015 consente: a) da un lato, di evitare di costringere il datore di lavoro a licenziare il lavoratore resosi improvvisamente assente dal posto di lavoro senza alcuna giustificazione per un significativo lasso di tempo, accollandosi anche il costo del ticket di licenziamento; b) dall’altro, di evitare che il lavoratore “furbetto”, invece di dimettersi – cosa che non darebbe luogo al diritto alla Naspi – si metta nella condizione di farsi licenziare per accedere all’indennità di disoccupazione. Ma non tutti la pensano così.
Qualcuno ritiene che questa modifica – per quanto contrasti alcune illegalità diffuse circa l’accesso alla Naspi – possa essere comunque foriera di pratiche che rischiano di compromettere la posizione dei lavoratori. L’esempio di maggiore ricorrenza è quello che vede un lavoratore assentarsi dal posto di lavoro magari perché non riceve la retribuzione da diversi mesi oppure perché il datore di lavoro non rispetta le norme in materia di sicurezza (venendosi a configurare così una eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c.). In questi casi, l’assenza protratta darebbe luogo ad un lavoratore dimissionario “per legge”, imponendo poi a quest’ultimo di dimostrare che l’assenza dal posto di lavoro era dovuta ad altre ragioni, come prevede espressamente l’art. 19 del nuovo DDL 1532-bis.
Tuttavia, giova evidenziare due cose al riguardo. Anzitutto, la disposizione prevede un meccanismo di salvaguardia giacché il datore di lavoro, in caso di assenza ingiustificata nei termini previsti dalla legge, non può considerare il lavoratore automaticamente dimissionario ma deve darne comunicazione all’Ispettorato nazionale del lavoro “che può verificare la veridicità della comunicazione” e quindi dell’assenza del lavoratore e dei motivi del tutto arbitrari alla base di questa. È di tutta evidenza che in questa fase, l’Ispettorato potrebbe anche svolgere degli accertamenti per verificare le motivazioni che hanno indotto il lavoratore ad assentarsi, magari convocandolo e chiedendo spiegazioni al riguardo. Insomma, il coinvolgimento nella procedura di un ente terzo – che peraltro potrebbe sempre “accendere” i fari sull’impresa e dare luogo ad un’ispezione in caso di anomalie – sembra allontanare lo “spettro” delle dimissioni in bianco, che nel caso di specie poco o nulla c’entrano.
Inoltre, laddove il lavoratore voglia assentarsi per mancata corresponsione della retribuzione o per una mancata messa in sicurezza dell’ambiente di lavoro, potrebbe pur sempre comunicare per iscritto al datore di lavoro i motivi delle reiterate assenze, nel rispetto del principio di correttezza e buona fede che è alla base di ogni rapporto contrattuale, superando così ogni possibile sospetto di “assenza fraudolenta”.
Peraltro, occorre segnalare che una misura di questo tipo non rappresenta certamente un unicum; al contrario, la stessa sembrerebbe essere debitrice di una analoga disciplina introdotta in Francia tra il 2022 e il 2023, poco prima della presentazione del DDL. Si tratta della disciplina dell’abandon de poste de travail (art. L1237-1-1 del Code du travail) che aveva le medesime finalità e che pure era stata accolta con accenti abbastanza critici dalla dottrina d’Oltralpe.
L’influenza della disciplina francese su quella italiana per come modificata dal DDL in ultima seduta – che, al netto delle critiche legittime, ha migliorato comunque una disposizione di base assai più problematica – è desumibile dalla modifica del termine relativo all’assenza ingiustificata, che passa da 5 a 15 giorni (gli stessi del decreto attuativo francese), e dalla possibilità di contestare la risoluzione del contratto da parte del lavoratore. Cambia, a livello procedurale, la “possibile” verifica della veridicità della comunicazione datoriale nella proposta italiana e la previsione di una necessaria “messa in mora” del lavoratore nel caso francese.
È bene segnalare, inoltre, che la disciplina francese – rispetto alla “vulgata italiana” di una misura volta a regolare le “dimissioni di fatto” – viene più correttamente inquadrata nei termini di una presunzione legale di dimissione, che è cosa diversa. D’altronde, la dimissione non è di fatto, ma in ragione della conseguenza giuridica che la legge decide di connettere al comportamento e che è, almeno nei casi di abuso, l’opposto di quella cercata da chi pone in essere tale condotta.
In conclusione, dunque, l’ultima versione dell’art. 19 sembra essersi irrobustita sotto il profilo delle garanzie per il lavoratore, anche rispetto alle indicazioni pervenute dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori alla prima versione del DDL (per una rassegna, cfr. G. Benincasa (a cura di), Il disegno di legge collegato lavoro (1532-bis). La prospettiva delle parti sociali, ADAPT University Press, 2024, spec. pp. 79-80, ove si evidenzia il tono critico della Cisl rispetto al termine dei 5 giorni troppo ridotto e l’opportunità, secondo la Uil, di introdurre un meccanismo di garanzia coinvolgendo l’Ispettorato del lavoro).
Tuttavia, i problemi (e i limiti) di questa disposizione che si va introducendo sembrano essere decisamente altri rispetto a quelli segnalati nel dibattito pubblico, che avrebbe impropriamente equiparato la fattispecie in questione a quella delle dimissioni in bianco.
Anzitutto, occorre segnalare che la disposizione certamente non argina completamente tutte gli escamotage che possono essere adottati dai lavoratori “furbetti” per conseguire il medesimo obiettivo e cioè l’accesso alla Naspi. Pensiamo al lavoratore che ricorre appositamente alla insubordinazione per farsi licenziare o al lavoratore o alla lavoratrice che reitera il ritardo sul luogo di lavoro allo scopo di conseguire il medesimo risultato.
Inoltre, permane comunque il dubbio relativamente alla sede dove il lavoratore possa dimostrare che l’assenza prolungata dal posto di lavoro non era dovuta alla volontà di recedere dal contratto ma connessa ad altre ragioni: è sufficiente rivolgersi all’Ispettorato, che riceve la comunicazione del datore di lavoro relativa all’assenza ingiustificata del lavoratore, oppure occorre adire il giudice del lavoro?
Resta poi il problema relativo al fatto che il controllo da parte dell’Ispettorato sembrerebbe porsi nei termini di una possibilità e non di un vero e proprio obbligo procedurale, con non poche ricadute sull’effettività della tutela del lavoratore.
Infine, un ultimo nodo problematico riguarda il ruolo della contrattazione collettiva, chiamata ora dalla legge a stabilire un termine per definire quando possa parlarsi di assenza ingiustificata del lavoratore come manifestazione (presuntiva) della volontà di quest’ultimo di recedere dal contratto di lavoro: occorre che i contratti collettivi introducano una specifica previsione per l’abbandono del posto di lavoro con dei termini precisi oppure si potrà fare riferimento al termine previsto ai fini della rilevanza per la risoluzione del rapporto tramite licenziamento? Nel primo caso, occorrerebbe capire quale sia il potere della contrattazione di disciplinare il termine rispetto a quello fissato ex lege di 15 giorni e cioè se il contratto collettivo possa limitarsi a prevedere disposizioni di miglior favore o meno. Nel secondo caso – che resta poco convincente – occorrerebbe valutare la compatibilità di questa interpretazione con il diritto a difendersi contro una contestazione che nasce nell’ambito dell’esercizio del potere disciplinare, ma ne viene sottratta ai fini di applicazione di questa disciplina specifica.
Emanuele Dagnino
Assegnista di ricerca
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
@EmanueleDagnino
Giovanni Piglialarmi
Ricercatore Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
ADAPT Senior Fellow