La “giuridificazione” del contratto misto

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Bollettino speciale ADAPT 18 ottobre 2024, n. 5
 
L’articolo 17 del DDL Lavoro (A.S. 1264) contiene previsioni relative ai contratti misti, la cui sussistenza vi è nel momento in cui un lavoratore e un datore di lavoro divengono parte, contemporaneamente, di un contratto di lavoro subordinato (potenzialmente part-time) e di un contratto di lavoro autonomo. Non si tratta propriamente di una norma di stampo “giuslavoristico”, nel senso che la disposizione del DDL non genera o disciplina diversamente una nuova tipologia contrattuale; si tratta piuttosto della modifica di una disciplina fiscale che è finalizzata ad incentivare la stipulazione di due contratti di lavoro, riconducibili a due fattispecie tra loro opposte. Semmai, come meglio vedremo, l’unico aspetto di rilievo giuslavoristico è la parte della disposizione dedicata a dettare delle misure di coordinamento (e antielusive) per la coesistenza di due contratti di lavoro tra le medesime parti.
 
La norma ha l’evidente genesi nell’esperienza contrattual-collettiva del gruppo bancario Intesa Sanpaolo che, con il “Protocollo per lo Sviluppo Sostenibile”, sottoscritto il 1° febbraio 2017, ha sperimentato il c.d. contratto ibrido. Non è del resto estranea alla nostra tradizione che l’autonomia collettiva sperimenti delle particolari “formule contrattuali” agevolate o talvolta recepite poi dalla legge.
 
Inserito tra le principali modalità di inserimento nella rete di filiali del Gruppo dei nuovi consulenti, ribattezzati “Global advisor“, il c.d. contratto ibrido si caratterizza per la co-esistenza in capo alle stesse parti di un contratto part-time verticale e uno di agenzia compensato con provvigione, fermo restando che la banca ha dato ormai, con decorrenza 8 febbraio 2023, sostanziale disdetta di quanto previsto in tema di “contratto misto” relativamente alle nuove assunzioni decorrenti da quella data. Questo in ragione di una presunta disaffezione a questo modello contrattuale.
 
Tuttavia, l’intervento del DDL pare proprio provare a rilanciare questa intuizione, disponendo la deroga al divieto di applicazione del regime forfetario previsto per le persone fisiche la cui attività sia esercitata prevalentemente nei confronti di datori di lavoro, intervenendo sul campo di applicazione della clausola ostativa all’applicazione del regime forfettario, prevista dall’art. 1, comma 57, lettera d-bis della legge n. 190 del 2014.
 
Tale regime, introdotto dalla legge di stabilità 2015 (articolo 1, commi 54-89 della legge n. 190 del 23 dicembre 2014), è destinato agli operatori economici di ridotte dimensioni a favore dei quali operano rilevanti semplificazioni ai fini Iva e ai fini contabili, e consente, altresì, la determinazione forfetaria del reddito da assoggettare a un’unica imposta con aliquota al 15 per cento sostitutiva delle imposte sui redditi e dell’Irap. La sua applicazione è subordinata solo al verificarsi delle condizioni e al possesso dei requisiti prescritti dalla legge. A riguardo Il comma 54 della legge di bilancio 2023 ha innalzato a 85 mila euro (rispetto al precedente limite di  65 mila euro) la soglia di ricavi e compensi che consente di applicare un’imposta forfetaria del 15 per cento sostitutiva di quelle ordinariamente previste.
 
In base alla menzionata clausola ostativa, introdotta per contrastare l’abuso delle partite IVA mono-committenti – utilizzate spesso per evitare di fornire ai lavoratori le tutele tipiche del lavoro subordinato – l’accesso a tale regime risulta precluso alle persone fisiche la cui attività sia esercitata prevalentemente nei confronti di datori di lavoro con i quali sono in essere o precedentemente intercorsi rapporti di lavoro nei due antecedenti periodi d’imposta, ovvero nei confronti di soggetti direttamente o indirettamente riconducibili ai suddetti datori di lavoro, ad esclusione di coloro che iniziano una nuova attività dopo aver svolto il periodo di pratica obbligatoria ai fini dell’esercizio di arti o professioni.
 
Orbene, l’art. 17, comma 1, se confermato in sede di approvazione definita, stabilirà la non applicabilità della suddetta clausola ostativa alle persone fisiche iscritte ad albi e/o repertori professionali esercenti attività libero-professionale (incluse quelle esercitate nelle forme di cui all’articolo 409, n. 3, del codice di procedura civile ossia rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato) a favore di datori di lavoro che impiegano più di duecentocinquanta dipendenti, dai quali sono contestualmente assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo parziale e indeterminato.
 
Rispetto al criterio dimensionale che legittima l’applicazione di questa agevolazione, la norma precisa che il numero dei dipendenti è calcolato alla data del 1° gennaio dell’anno nel quale sono stipulati il contratto di lavoro subordinato e il contestuale contratto di lavoro autonomo o contratto d’opera professionale. Mentre, con riferimento al contratto di lavoro subordinato, la disposizione precisa che questo deve prevedere un orario che rientri tra un minimo del 40 per cento e un massimo del 50 per cento del tempo pieno previsto dal contratto collettivo di lavoro applicato.
 
Viene, altresì, stabilito che i lavoratori autonomi sono tenuti ad eleggere un domicilio professionale non coincidente con quello del soggetto con cui hanno stipulato un contratto di lavoro subordinato a tempo parziale.
 
Il comma 2 prevede un’ulteriore deroga all’esclusione prevista dalla citata lettera d-bis), stabilendo che, fermi restando gli ulteriori requisiti previsti dal comma 1, in mancanza di iscrizione ad albi o repertori professionali, la predetta causa ostativa non si applica, altresì, nei confronti delle persone fisiche che esercitano attività di lavoro autonomo, nei casi e nel rispetto delle modalità e condizioni previste da specifiche intese realizzate ai sensi dell’articolo 8 del decreto-legge, 13 agosto 2011, n.138, (c.d. accordi di prossimità).

 
La norma sul punto non chiarisce sufficientemente se affinché operi la deroga sia sufficiente che si applichi una intesa di prossimità che disciplini qualsiasi materia di cui al comma 2 dell’art. 8 oppure deve trattarsi di una intesa di prossimità che disciplini in modo specifico la lettera e) del comma 2 e quindi  «modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA» e non precisa neppure se l’accordo di prossimità può o meno utilizzarsi ai fini dell’ accesso al regime fiscale agevolato per chi esercita le professioni non ordinistiche ex legge n. 4/2013.
 
Infine, il comma 3 indica le condizioni necessarie ai fini dell’applicazione della deroga prevista dal comma 1. In particolare, si stabilisce, nel chiaro tentativo di evitare abusi e dunque situazioni nelle quali la fattispecie di lavoro autonomo nasconda in realtà un rapporto di lavoro subordinato non tutelato, che tale deroga trova applicazione esclusivamente a condizione che il contratto di lavoro autonomo costituito contestualmente al contratto di lavoro subordinato sia certificato dagli organi di cui all’articolo 76 del D.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 e che non vi sia , rispetto al contratto di lavoro subordinato, alcuna forma di sovrapposizione riguardo all’oggetto e alle modalità della prestazione, nonché all’orario e alle giornate di lavoro.
 
La disposizione non è stata risparmiata dalle critiche mosse in particolare dagli attori sindacali, che hanno espresso la preoccupazione che, per questa via, si incentivi il fenomeno di spostamento da lavoro dipendente a lavoro autonomo spurio e si legittimino forme di lavoro ibrido a discapito di tutele e stabilità.
 
Nodi problematici sono stati sollevati anche dalle opposizioni, che, sulla stessa linea, hanno espresso in particolare il timore che una norma come quella in commento favorisca un processo, già in atto, di trasformazione fittizia di lavoro dipendente in lavoro autonomo monocomittente, con conseguenti minori costi per le imprese e maggiori rischi per i lavoratori.
Chiaro è che, al di là delle specifiche posizioni assunte da politica e parti sociali, l’intento del legislatore di favorire una maggiore flessibilità, permettendo ai lavoratori di integrare il proprio reddito con attività autonomo-professionali, pur mantenendo un rapporto subordinato con il medesimo datore, deve conciliarsi sull’effettiva idoneità della norma di prevenire abusi, che sarà solo l’applicazione pratica a testimoniare.
 
Arianna Ferraguzzo

Assegnista di ricerca Università degli studi dell’Insubria

La “giuridificazione” del contratto misto