Colombia: un intervento della Corte Costituzionale sul licenziamento di un lavoratore che ha assunto sostanze stupefacenti al di fuori dell’orario di lavoro

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Bollettino ADAPT 18 novembre 2024, n. 41
 
Il tema del bilanciamento tra il diritto alla privacy e alla libera espressione della personalità del lavoratore, da un lato, e il dovere, in capo al datore di lavoro, di mantenere un ambiente di lavoro sicuro e salubre, dall’altro, è oggetto di un recente pronunciamento della Corte Costituzionale della Colombia – la sentenza T-306 del 2024 – di particolare interesse per le argomentazioni a sostegno della decisione a favore del datore di lavoro.
 
Il caso in esame è quello di Alfonso – un operaio dell’impresa D.I.S.A. addetto alla gestione del carroponte utilizzato per trasferire materiali nelle diverse fasi del processo di zincatura a caldo all’interno della zona umida – il quale ha presentato ricorso contro il licenziamento per giusta causa quale esito di un procedimento disciplinare aperto dopo essere stato trovato positivo al consumo di marijuana, avvenuto al di fuori dell’orario di lavoro.
 
Sebbene il consumo di sostanze allucinogene come giusta causa di risoluzione del contratto di lavoro rappresenti un tema ampiamente dibattuto in giurisprudenza, sino alla sentenza T-306 del 2024 questa questione non era, però, mai stata esaminata nel contesto del consumo ricreativo al di fuori dell’ambito lavorativo, quello, cioè, che avviene in un contesto familiare, personale o sociale, e senza una dipendenza diagnosticata a livello medico.
 
Secondo il ricorrente, benché il test sia stato effettuato con il proprio consenso, il licenziamento per giusta causa violerebbe una serie di diritti fondamentali, tra cui il diritto alla libera espressione della personalità, alla stabilità lavorativa rafforzata per una persona in stato di evidente vulnerabilità per motivi di salute e, di conseguenza, il diritto al lavoro, alla sicurezza sociale, ad un giusto processo, al minimo vitale e ad una vita in condizioni dignitose.
 
Si è domandata, dunque, la Corte, non solo se la condotta tenutasi nell’ambito della vita privata abbia prodotto o meno effetto anche nel contesto lavorativo, ma se tale effetto sia stato idoneo a generare un pericolo per il lavoratore o i suoi colleghi. Difatti, non mancano pronunce della stessa Corte Costituzionale (come, ad esempio, la sentenza C-636 del 2016) in cui il fatto di presentarsi a lavoro in stato di ubriachezza o sotto l’effetto di narcotici o droghe inebrianti non sia stato ritenuto sufficiente a giustificare un eventuale licenziamento, ove si sia dimostrato che il lavoratore, in considerazione delle mansioni svolte, sia stato comunque in grado di portare avanti la propria attività senza mancanze.
 
Nel caso di specie, invece, risulta provato che, sebbene il consumo sia avvenuto fuori dall’orario di lavoro e nel tempo libero del lavoratore, detta condotta abbia «avuto un impatto sulle capacità motorie e di attenzione del ricorrente, incaricato della conduzione di un carroponte», aumentando così il rischio di incidenti o infortuni sul lavoro in considerazione anche dell’elevata concentrazione richiesta dal tipo di attività, classificata come pericolosa secondo gli indici della ARL (Administradoras de Riesgos Laborales), a fronte dell’utilizzo di sostanze chimiche come zinco e acido cloridrico.
 
Anche secondo il parere del medico del lavoro dell’azienda, riportato nella sentenza, l’assunzione di sostanze psicoattive «continua ad influenzare la capacità di percezione e reazione anche nei giorni successivi al consumo. Questo produce un impatto negativo sull’adempimento delle funzioni e sulle prestazioni lavorative, oltre ad aumentare significativamente il rischio di incidenti sul lavoro, soprattutto perché il ruolo svolto dal ricorrente è operativo e la gestione del carroponte richiede grande attenzione e cura, dati i rischi elevati associati a dette operazioni».
 
Di conseguenza, l’argomentazione addotta dal ricorrente secondo cui il licenziamento non sarebbe giustificato poiché lesivo del diritto alla libera espressione della propria personalità, risulta priva di fondamento a parere della Corte, in quanto il licenziamento, secondo le risultanze probatorie, non è stato causato da un generico disprezzo nei confronti dell’utilizzo di droghe né dall’interferenza da parte del datore di lavoro in un ambito, quella della vita privata, al di fuori della propria sfera di competenza, bensì è stato considerato come una misura volta a garantire un ambiente di lavoro sicuro, e a proteggere il lavoratore, i suoi colleghi e i terzi dai possibili rischi derivanti dal consumo di tali sostanze nel contesto di un’attività ad alto rischio.
 
È dimostrato, altresì, che l’azienda abbia seguito le procedure stabilite nel regolamento interno in punto di procedimenti disciplinari, compreso l’obbligo di legge di adottare politiche chiare sul consumo di sostanze, realizzando appositi corsi di formazione preventiva destinati ai propri lavoratori. E che, dunque, anche il diritto al giusto processo del lavoratore sia stato garantito trova conferma nel fatto che risulta accertato che il ricorrente abbia partecipato a corsi di formazione e incontri informativi, il che, se da un lato conferma l’impegno del datore di lavoro nel promuovere campagne di prevenzione per evitare i rischi legati al consumo di tali sostanze e ai loro possibili effetti sul lavoro, dall’altro rappresenta una riprova della consapevolezza da parte del ricorrente circa l’impatto che una simile condotta avrebbe potuto avere sul proprio rendimento lavorativo, con conseguente rischio per la sicurezza propria e dei colleghi.
 
Anche per quanto riguarda il presunto diritto – allegato dal ricorrente – ad una stabilità lavorativa rafforzata per motivi di salute, la Corte ha fatto una distinzione tra il consumo che conduce ad una diagnosi medica e il consumo ricreativo di sostanze psicoattive. Nel primo caso, sulla base della giurisprudenza vigente, viene riconosciuta una tutela contro il licenziamento ove tale consumo interferisca con le funzioni lavorative e si tratti di condizione nota al datore di lavoro. Nel secondo caso, al contrario, la Corte ha precisato che detta protezione non si applica, ragion per cui ha ritenuto che il ricorrente non fosse titolare di tale garanzia, giacché nella fattispecie in questione, «come è stato accertato, il consumo della sostanza è avvenuto fuori dai locali aziendali, di domenica e come attività ricreativa. Ciò non implica alcuna condizione di salute particolare del ricorrente».
 
In conclusione, la sentenza in esame stabilisce un precedente importante nel confermare quanto la sicurezza sul lavoro sia una responsabilità condivisa, se si considera che le decisioni personali dei lavoratori, anche al di fuori dell’orario di lavoro, possono avere implicazioni e ripercussioni sull’ambiente lavorativo. Pertanto, i datori di lavoro non solo sono autorizzati, ma obbligati a prendere misure che proteggano l’integrità e la sicurezza di tutti i dipendenti, quando i comportamenti di alcuni di essi possano generare rischi, specialmente nei settori in cui qualsiasi alterazione nelle capacità del lavoratore può avere conseguenze gravi per sé e per i propri colleghi.
 
Lavinia Serrani

Ricercatrice ADAPT

Responsabile Area Ispanofona

@LaviniaSerrani

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