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Bollettino ADAPT 18 novembre 2024 n. 41
I contratti di appalto nella logistica fanno ancora discutere. L’ultima notizia che riguarda l’accusa ad un player della logistica è del 14 novembre scorso in cui, tramite un decreto di sequestro preventivo d’urgenza della Procura della Repubblica di Milano, viene contestata “una complessa frode fiscale derivante dall’utilizzo, da parte della beneficiaria finale, del meccanismo illecito di fatture per operazioni giuridicamente inesistenti a fronte della stipula di fittizi contratti d’appalto per la somministrazione di manodopera”.
A seguito della crescente attenzione posta da parte delle autorità ispettive su tali fenomeni (si veda anche il Documento INL di programmazione della vigilanza per il 2024 in cui si parla di “Lavoro grigio” includendovi “quei rapporti di lavoro che, seppure formalmente regolari, presentano, nel concreto svolgimento, elementi di irregolarità sostanziali e ricomprende i fenomeni dell’appalto e del distacco, anche transnazionale, non genuini e della somministrazione abusiva, cioè effettuata da soggetti privi della necessaria autorizzazione”), sono ormai entrati nel gergo comune concetti come “intermediazione di manodopera”, “filiera della manodopera”, “complesso sistema di società filtro”, “società serbatoio” o “serbatoi di manodopera”, fino ad arrivare, in alcuni casi, a parlare del c.d. “caporalato digitale”.
Lo schema accusatorio è, ormai da mesi, sempre lo stesso: se gli appalti stipulati non sono genuini, le fatture ad essi collegate sono illecite in quanto emesse per operazioni giuridicamente inesistenti: gli pseudo-appalti.
Tralasciando in questa sede i profili strettamente fiscali e penali, il presupposto per tale accusa è la configurazione – nei fatti – di una intermediazione di manodopera (a seguito della mancata genuinità dei contratti di appalto) la quale, non essendo avvenuta tramite le Agenzie per il lavoro individuate agli artt. 4 e ss del d.lgs. n. 276/2003 e legittimate a somministrare i lavoratori secondo le regole individuate dal nostro ordinamento (d.lgs. n. 81/2015, Capo IV), risulta illecita (costituendo uno pseudo-appalto, dunque, non genuino), potendo assumere rilevanza anche sotto i profili di diritto penale del lavoro (art. 18, d.lgs. n. 276/2003).
Per comprendere a fondo tale meccanismo è necessario partire da un primo interrogativo, utile ad inquadrare la disciplina in materia di appalto: quando è possibile ricorrere – legittimamente, si intende – ad un contratto di appalto?
Per rispondere a questa prima domanda merita anticipare che i fenomeni della c.d. “frammentazione d’impresa” o “frammentazione del ciclo produttivo di impresa” previsti nel nostro ordinamento riguardano uno o più processi produttivi che, almeno in astratto, potrebbero essere svolti all’interno di una sola azienda ma che, in concreto, si svolgono tramite più aziende, grazie ai processi di esternalizzazione o terziarizzazione, comportando talvolta lunghe filiere di appalto e subappalto. È sempre più diffusa, infatti, la dinamica per cui aziende leader nel settore della logistica ricorrono alle esternalizzazioni di parte delle proprie attività, demandando ad esempio le attività di facchinaggio, movimentazione e/o trasporto ad aziende terze. E, se da un lato questo può incrementare i livelli di specializzazione e qualificazione degli operatori della logistica, dall’altro lato, come spesso avviene, tali prassi si instaurano mediante processi fraudolenti e applicazione distorta della normativa di riferimento.
L’articolo 1655 c.c. definisce l’appalto come quel “contratto con il quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro”. Parallelamente, l’articolo 29, comma 1, del d.lgs. n. 276/2003, specifica altresì che l’appalto “si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa”.
Come emerge dalla lettera delle disposizioni in commento, infatti, il contratto di appalto configura innanzitutto una obbligazione di “fare” (un’opera o un servizio) e non di “dare” (lavoratori) come nel caso della somministrazione di manodopera. Già questo, muovendo dall’analisi dell’esigenza organizzativa e imprenditoriale del committente (e chiedendosi se si intende esternalizzare un servizio affidandolo a terzi o ingaggiare ulteriore manodopera gestendo direttamente le attività), dovrebbe bastare per distinguere le due fattispecie contrattuali.
Tuttavia appare opportuno ricordare che, fermo restando le diverse tipologie di appalto (extra-aziendale, endo-aziendale, labour intensive) su cui i singoli indici di genuinità possono avere una diversa incidenza, nonché gli eventuali profili di responsabilità solidale (su quest’ultimo aspetto si veda G. Benincasa, Non solo appalti e subappalti: la responsabilità solidale opera sempre in caso di dissociazione tra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione, Bollettino ADAPT 11 novembre 2024, n. 40) al fine di preservare la genuinità del contratto di appalto è necessario che lo stesso presenti almeno tre requisiti fondamentali, tutti di esclusiva prerogativa dell’appaltatore (cioè colui che, in forza del contratto di appalto, si impegna a svolgere le attività esternalizzate): (1) autonoma organizzazione dei mezzi, (2) assunzione del rischio di impresa, (3) esercizio dei tipici poteri datoriali (organizzativo, direttivo e di controllo).
(1) Sull’organizzazione dei mezzi
Sotto il primo profilo, merita segnalare che a seguito dell’abrogazione dell’articolo 1, comma 3, della legge 1369/1960, il quale prevedeva una rigida previsione secondo cui l’appaltatore doveva essere proprietario dei mezzi utilizzati per la realizzazione dell’opera, questo indice può essere considerato – almeno in parte – affievolito. Ciò è vero soprattutto in caso di appalti labour intensive (ad alta intensità di manodopera): dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che la genuinità dell’appalto si considera sussistente anche nel momento in cui l’appaltatore non sia proprietario esclusivo dei mezzi utilizzati, a condizione che questi ultimi siano nella sua piena “disponibilità giuridica”, individuata dalla giurisprudenza tramite aspetti quali la manutenzione, la pulizia e, in generale, la concreta gestione dei mezzi (cfr. Cass. 4 ottobre 2018, n. 24357).
(2) Sul rischio di impresa
In secondo luogo, l’appaltatore è tenuto ad assumere su di sé il c.d. rischio d’impresa che deve tradursi, principalmente, nell’essenziale rischio di natura economica di cui si fa carico l’appaltatore, che individua un corrispettivo per le attività affidategli al momento della sottoscrizione del contratto. Sul punto, la Corte di Cassazione ha infatti sancito più volte che “il rischio di impresa quale elemento costitutivo del contratto di appalto, assorbito nella causa del medesimo, si identifica concretamente nella possibilità di non riuscire a coprire tutti i costi nell’esecuzione del contratto in relazione al corrispettivo pattuito, in considerazione del sopraggiungere di eventi in grado di far aumentare la spesa da sostenere” (cfr. Cass. 27 novembre 2018, n. 30694). Tale principio si basa sull’assunto, parimenti sancito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui “il rischio o pericolo che l’appaltatore assume nel compimento dell’opera o del servizio, non è quello inteso in senso tecnico-giuridico, relativo, cioè, ai casi fortuiti, ma quello cosiddetto economico, che deriva dall’impossibilità di stabilire previamente ed esattamente i costi relativi, per cui l’appaltatore, che non ha il potere di interrompere i lavori per l’aumentata onerosità degli stessi, potrà anche perdere nell’affare se i costi si riveleranno superiori al corrispettivo pattuito, salve le modificazioni consentite in presenza di determinate circostanze e realizzabili col rimedio della revisione dei prezzi” (cfr. Cass. 3 luglio 1979, n. 3754). Motivo per cui, la pattuizione di un corrispettivo diretto a coprire, ex post, tutti i costi sostenuti dall’appaltatore (costo del lavoro, mezzi, etc) potrebbe essere visto come elemento di non genuinità dell’appalto, avvicinandosi fin troppo al meccanismo di pagamento previsto in caso di somministrazione di lavoro (in cui l’utilizzatore rimborsa all’Agenzia per il lavoro il costo del lavoro in aggiunta ad una fee per il servizio fornito).
(3) Sull’esercizio dei poteri datoriali: organizzazione, direzione e controllo.
Infine, affinché un contratto di appalto possa dirsi legittimo senza tradursi, dunque, in una mera somministrazione (irregolare) di manodopera, è necessario altresì che l’appaltatore eserciti autonomamente il potere organizzativo e direttivo nei confronti dei propri dipendenti; potere che può essere esercitato anche dai suoi dirigenti o preposti (ex multis, Cass. 7 febbraio 2017, n. 3178). Infatti, la giurisprudenza è unanime nel ritenere che l’appalto è illecito tutte le volte in cui l’appaltatore mette a disposizione del committente la mera forza lavoro, riservandosi i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto di lavoro (non quelli organizzativi dell’attività di impresa, di cui se ne occuperebbe il committente) tralasciando l’effettivo esercizio dei poteri direttivi nei confronti dei lavoratori e senza una concreta organizzazione della prestazione lavorativa che risulti finalizzata a un risultato produttivo autonomo (cfr. interpello 23 ottobre 2009, n. 77). Tuttavia, va sottolineato che sebbene il committente (e i suoi preposti) non possa esercitare alcun potere direttivo e organizzativo sui dipendenti (poiché eccederebbe dal proprio ruolo per svolgere una funzione datoriale; sul punto, ex multis, Cass. 20 giugno 2018, n. 16259; Cass. 7 febbraio 2017, n. 3178; Cass. 6 giugno 2011, n. 12201), sembra rimanere comunque uno spazio che permette al committente di esercitare un potere di coordinamento con l’appaltatore, al fine di garantire il raggiungimento del risultato convenuto nel contratto di appalto (Cass. 10 giugno 2019, n. 15557). A tal proposito è infatti ammesso che il committente possa legittimamente esercitare una forma di “coordinamento industriale” contrattualmente prevista per assicurarsi che l’esecuzione del programma contrattuale (l’opera o il servizio) che l’appaltatore si è impegnato a realizzare sia attuato secondo le condizioni stabilite, a regola d’arte (art. 1662, comma 2, cod. civ.). Ciò vale a maggior ragione nel caso in cui la prestazione sia a carattere continuativo, in modo da permettere aggiornamenti e specifiche, nel rispetto del regolamento contrattuale, su dettagli e peculiarità del risultato che l’appaltatore deve realizzare (Cass. 28 marzo 2018, n. 14359; Cass. 2 aprile 2019, n. 9152). In questa prospettiva, il coordinamento industriale si differenzia dal potere direttivo in quanto è finalizzato ad influire sul risultato dell’attività appaltata ed è indirizzato non indistintamente su tutti gli ausiliari dell’appaltatore ma sull’imprenditore o sulla persona da lui incaricata come referente per l’esecuzione del contratto.
Ulteriori indici sussidiari
Fermo restando i tre principali indici di genuinità sopra richiamati, nel corso del tempo la giurisprudenza ha individuato ulteriori elementi sussidiari al fine di determinare la genuinità o meno di un contratto di appalto. Tra questi rileva, ad esempio, la qualifica imprenditoriale dell’appaltatore. A tal proposito, infatti, l’appaltatore non può limitarsi a fornire al committente la sola manodopera per la realizzazione di determinati servizi. Al contrario, esso deve disporre di una struttura imprenditoriale solida, che consenta di dimostrare la sua capacità di realizzare i servizi affidati in appalto. L’assenza della qualifica di imprenditore in capo all’appaltatore, infatti, tradotta in una mancanza di una organizzazione tecnica ed economica di tipo imprenditoriale, potrebbe essere considerata come elemento problematico ai fini della genuinità dell’appalto. L’appaltatore, infatti, in quanto imprenditore, deve essere in grado di dimostrare il possesso della necessaria professionalità, derivante dall’esercizio abituale (anche non continuativo, purché non meramente occasionale) della attività di impresa (cfr. ex multis, Cass. 29 agosto 1997, n. 8193; Cass. 31 maggio 1986, n. 3690; Cass. 29 gennaio 1973, n. 267). Per tale motivo sono spesso visti con sospetto quei soggetti che, seppur qualificati come appaltatori, subappaltano la totalità delle attività ricevute in appalto senza mantener alcun ruolo nell’ambito dell’appalto stesso, stipulato con il committente: è il caso delle c.d. “società filtro” spesso contestate durante le indagini e gli accertamenti condotti dalla Magistratura.
Inoltre, di recente introduzione è il vincolo legale, ad opera del comma 1-bis, dell’art. 29, d.lgs. n. 276/2003 (introdotto con il d.l. 19/2024, convertito con modificazioni dalla l. 54/2024), sull’applicazione del CCNL al personale impiegato nell’appalto (sul punto si veda E. M. Poiani Landi, Decreto PNRR: si arricchisce o si complica ulteriormente il quadro normativo vigente in materia di appalti e contrattazione collettiva? in Bollettino speciale ADAPT 10 aprile 2024, n. 1). Una misura che, tuttavia, non risulta nuova per molti sistemi di relazioni industriali in cui spesso i CCNL prevedono limiti e vincoli in materia di contrattazione collettiva applicata in caso di ricorso ai contratti di appalto (si veda a mero titolo esemplificativo l’articolo 42-bis del CCNL Logistica, Trasporto merci e spedizioni – Cod. CNEL I100 – in cui viene posto un vincolo sul CCNL che le aziende appaltatrici devono applicare in caso di ricorso al contratto di appalto per talune attività nonché, per le stesse, un divieto di subappalto, fermo restando gli affidamenti tra consorzio e consorziate).
Non da ultimo è necessario tenere in considerazione, nell’ambito della valutazione della genuinità dei contratti di appalto, l’impatto che le nuove tecnologie e il progresso tecnologico hanno sugli indici di genuinità e sulla loro interpretazione, come nel caso, proprio nel settore della logistica, dell’utilizzo dei software per l’organizzazione delle attività (a mero titolo esemplificativo: di magazzinaggio e di trasporto) appaltate. Se infatti da un lato tali strumenti configurano dei mezzi di lavoro tanto da doverli considerare (e valutare) alla stregua del primo indice individuato (autonoma organizzazione dei mezzi) non possiamo trascurare l’incidenza che gli stessi potrebbero avere anche sull’esercizio dei poteri datoriali, in termini di direttive, organizzazione e controllo dal committente all’appaltatore (cfr. Cass. 2 novembre 2021, n. 31127, Trib. Padova 16 luglio 2019, n. 550, Trib. Catania 4 novembre 2021, n. 4553, App. Venezia, 30 marzo 2023).
Insomma, un complesso sistema di regole giuslavoristiche che comportano, sempre più spesso, la necessità di effettuare una attenta valutazione sui propri processi produttivi e di esternalizzazione al fine di comprendere, in primo luogo, quale sia il livello di rischio a cui i diretti interessati tramite tali operazioni si espongono nonché gli interventi migliorativi da poter apportare al proprio modello organizzativo e ai propri contratti per scongiurare il rischio di vedersi contestata l’intermediazione di manodopera con conseguente accusa di utilizzo di illecite fatture per operazioni giuridicamente inesistenti.
Giada Benincasa
Coordinatrice della Commissione di certificazione DEAL dell’Università di Modena e Reggio Emilia