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Bollettino ADAPT 25 novembre 2024, n. 42
Non ha destato grande interesse la pubblicazione del XXII rapporto Inapp-Inps sull’apprendistato in Italia. Nella stampa specializzata solo il Sole 24 Ore ha dedicato un breve contributo di sommaria sintesi dei principali dati. Un segnale questo che la scommessa dell’apprendistato, lanciata ai tempi della legge Biagi e poi ribadita col protocollo tra Governo e parti sociali del 27 ottobre 2010, è forse persa. Il gruppo di ricerca di ADAPT ritiene che questo sia però un grave errore. Inutile o semplicemente retorico parlare di giovani, produttività, disallineamento tra domanda e offerta di lavoro se non si investe per davvero sull’apprendistato come hanno fatto altri Paesi (oltre alla Germania vanno ricordate le performance dell’apprendistato in Francia). Perché l’apprendistato non è un banale contratto di lavoro, utile al (più o meno) rapido ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, ma un vero e proprio sistema partecipato e plurale per la costruzione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro, per la progettazione dei mestieri e per la loro regolazione, per la promozione dell’innovazione e dell’inclusione sociale. Lo abbiamo precisato in vari studi del passato e ora anche in due monografie (vedi G. Impellizzieri, Contributo allo studio giuridico del “sistema” del’apprendistato, ADAPT University Press, 2024 e M. Colombo, Contributo allo studio del moderno apprendistato. Una lezione dal passato su mestieri, innovazione, corpi intermedi, ADAPT University Press, in corso di pubblicazione).
La presentazione del rapporto Inapp-Inps dedicato proprio all’apprendistato è quindi l’occasione per sviluppare non tanto una disamina dei vari capitoli del rapporto, per la quale si rimanda ad altri contributi di questo bollettino, ma una riflessione complessiva su come si sta trasformando (o a cosa si sta riducendo) l’apprendistato in Italia. Verso la costruzione di un vero e proprio “sistema”? O verso la sua progressiva riduzione a (mero) contratto d’ingresso?
Difficile pensare, innanzitutto, che l’apprendistato italiano stia andando nella direzione pur richiamata dal titolo del rapporto, “Segnali di potenziamento dell’apprendistato duale”. Il duale, cioè l’apprendistato di primo e terzo livello, ancora stenta ad affermarsi in Italia, mentre prosegue l’egemonia dell’apprendistato professionalizzante, o di secondo livello. Prendendo a riferimento l’ultima annualità considerata dal rapporto, il 2022, il 97,7% degli apprendistati in Italia era di tipo professionalizzante, con più di 550.000 contratti attivi, l’1,9% di primo livello, con poco più di 10.000 contratti attivi, e lo 0,2% di terzo livello, pari a circa 1.000 contratti. Numeri assolutamente residuali, con forti sproporzioni territoriali: la metà degli apprendisti di primo livello si concentrano tra la Lombardia e la Provincia Autonoma di Bolzano (in tema vedi G. Impellizzieri, Apprendistato duale: ancora la lezione di Bolzano, in Bollettino ADAPT 21 febbraio 2022, n. 7) così come la maggior parte degli apprendisti di terzo livello è al Nord e in particolare in Piemonte (sul caso piemontese vedi M. Colombo, E. Massagli, Verso la costruzione di un (vissuto, non teorico) sistema di apprendistato duale: la nuova disciplina di Regione Piemonte, in Bollettino ADAPT 7 dicembre 2020, n. 45).
Indubbiamente, l’aumentata diffusione di queste tipologie di apprendistato certificata dal rapporto è da salutare con favore, ma sembra ancora presto per poter parlare di veri e propri “segnali di potenziamento”. L’apprendistato di primo livello aumenta grazie alle risorse messe a disposizione dal PNRR per la realizzazione dei percorsi di Istruzione e Formazione Professionale in modalità duale, ma aumenta anche negli istituti secondari superiori e soprattutto nei percorsi di Istruzione e Formazione Tecnica Superiore (IFTS). Percorsi che però, se si esclude quelli secondari superiori, presentano una diffusione frammentata a livello nazionale e si concentrano solo in alcuni territori ben precisi. L’apprendistato di terzo livello, invece, aumenta grazie al diffondersi dell’istituto nell’ambito dei percorsi di Istruzione Tecnologia Superiore (ITS Academy). Al di là di questo “segnale” positivo, sembra invece tramontare l’ambizione della diffusione dell’apprendistato anche in ambito accademico. Ad elementi positivi, quindi, si accompagnano anche criticità che perdurano.
L’apprendistato, in Italia, è (e resta) l’apprendistato professionalizzante, la tipologia che riguarda il 97,7% dei contratti, e che pure ha spesso un limitato contenuto formativo. Un apprendistato che, per intendersi, secondo la definizione richiamata nella recente raccomandazione sugli apprendistati di qualità dall’ILO (vedi sul punto M. Colombo, Prima lettura della raccomandazione ILO e impatto sul caso italiano, in Bollettino ADAPT, n. 23/2023), potrebbe non essere definito tale, non portando all’ottenimento di una certificazione pubblica e riconosciuta, ma solo ad una qualificazione valida ai fini contrattuali. Peraltro, il rapporto Inapp-Inps certifica che circa solo un apprendista professionalizzante su cinque, a livello nazionale, partecipa ai corsi di formazione per l’acquisizione di competenze di base e trasversali, erogati da enti accreditati e finanziati dalle Regioni: viene così meno quell’alternanza tra la formazione interna ed esterna, che pure rappresenta un altro criterio tra quelli indicati dalle istituzioni sovranazionali per un apprendistato di qualità (oltre la raccomandazione ILO vedi anche la raccomandazione del Consiglio dell’UE del 15 marzo 2018 relativa a un quadro europeo per apprendistati efficacia e di qualità) . Le risorse dedicate a tale monte ore formativo hanno subito bruschi tagli, assestandosi a 15 milioni all’anno a partire dal 2017: erano 100 solo 3 anni prima. Un bacino di risorse destinato ad assottigliarsi ancor di più se i considera che l’articolo 15 del c.d. DDL Lavoro dispone che queste risorse possano essere destinate anche a favore dell’apprendistato duale: una novità positiva, ma che andrebbe accompagnata da un aumento dei fondi a disposizione, altrimenti tale componente formativa risulterà essere sempre più residuale.
D’altronde, al di là delle pur interessanti sperimentazioni ed esperienze di successo a livello territoriale, sembra che l’apprendistato professionalizzante si stia trasformando in un (lungo) contratto di inserimento (la durata media di un percorso di apprendistato è pari a 19 mesi, meno di due anni). Ma constatata tale criticità, ci pare che l’intervento delle istituzioni chiamate a regolare l’istituto non debba concentrarsi tanto sul piano delle convenienze economiche, anche considerato il limitato effetto, certificato dallo stesso rapporto, degli incentivi dedicati all’apprendistato, quanto a ripensarne senso e funzione a partire da un robusto investimento sulla sua componente formativa.
Un compito che chiama in causa non tanto il legislatore nazionale, quanto l’attore regionale e, soprattutto, la contrattazione collettiva. Per ripensare l’apprendistato professionalizzante, ma anche per valorizzare l’apprendistato duale. Da quanto emerge dal rapporto, l’offerta pubblica regionale è ancora notevolmente limitata nei contenuti (corsi excel, corsi di lingua, ecc.) ma anche nella platea dei beneficiari, spesso selezionati soltanto tra gli apprendisti svantaggiati oppure con un titolo di studio inferiore, secondo una visione dell’istituto ancora una volta schiacciata sulla sua funzione, pur meritevole, di recupero e inclusione dei dropouts scolastici piuttosto che di promozione della qualità e della produttività del lavoro. La stessa contrattazione collettiva, della quale si riesce a dire poco considerata la scelta dell’Inapp di prendere in considerazione tutti i rinnovi di CCNL, ivi inclusi quelli sottoscritti da organizzazioni sindacali comparativamente non rappresentative e quindi non abilitate dal legislatore a regolare l’apprendistato (vedi art. 42, co. 5, d. lgs. 81/2015), pare poco o nulla interessata all’istituto, soprattutto nella sua declinazione “duale”, che però ben potrebbe svolgere quella funzione di raccordo tra percorsi formativi e sistemi di classificazione e inquadramento del personale da tempo invocata.
A parere di chi scrive, premessa necessaria per poter parlare – davvero – di segnali di potenziamento dell’apprendistato in Italia è un ripensamento complessivo dell’istituto, da concepire in una prospettiva di sistema. Non, quindi, come un contratto (più o meno incentivato, più o meno conveniente), ma come un istituto grazie al quale costruire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, utile alle imprese nel dare risposta ai loro fabbisogni formativi, ai giovani coinvolti nell’immetterli in adeguati percorsi di carriere, ai territori nel creare stabili collegamenti tra aziende e sistemi formativi.
Concretamente, tale approccio mette in primo piano il tema della governance partecipata dell’istituto, sfidando le Regioni e le parti sociali ad un maggior protagonismo: per quanto riguarda le Regioni, andando a integrare l’apprendistato all’interno di programmi più ampi e finalizzati all’innovazione o all’inclusione sociale, concependolo come una leva per l’ottenimento di quegli obiettivi basata sull’investimento in capitale umano. Ma anche ripensando l’offerta formativa pubblica nell’ambito dell’apprendistato professionalizzante, prevedendo un monte ore più elevato e soprattutto relativo a competenze veramente trasversali il settore nel quale l’apprendistato è assunto, così da favorirne anche l’occupabilità.
Per quanto invece riguarda le parti sociali, attraverso una valorizzazione dell’istituto nella contrattazione nazionale, ma anche territoriale e aziendale. Potenziando il ruolo (anche formativo) degli enti bilaterali (come avviene nel settore edile, finanziando grazie alle risorse dei Fondi Interprofessionali la formazione degli stessi apprendisti ma anche percorsi specifici dedicati ai tutor aziendali, aumentando il monte ore della formazione interna nell’ambito dell’apprendistato professionalizzante e aggiornando i profili formativi ad esso correlati (come nel recente esempio degli accordi relativi ai CCNL Confcommercio e Confesercenti del terziario).
Riscoprendo, in sintesi, l’origine e il senso di questo istituto quale canale per la trasmissione delle conoscenze e la costruzione (e regolazione) dei mestieri, adattandole – grazie appunto alla governance partecipata e multi-livello già descritta – alle sfide oggi caratterizzanti i mercati del lavoro. E contrastando, quindi, il suo declino a contratto sempre meno formativo, utile a gestire (lunghi) percorsi di inserimento, diffuso nella sua versione duale solo in alcuni territori ben circoscritti.
Matteo Colombo
Direttore Fondazione ADAPT
ADAPT Senior Fellow
Assegnista di ricerca Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
@giorgioimpe
Michele Tiraboschi
Università di Modena e Reggio Emilia