Bollettino ADAPT 2 dicembre 2024, n. 43
Lo schema di decreto correttivo (l’ennesimo della serie) al codice degli appalti pubblici, approvato dal Consiglio dei Ministri del 21 ottobre 2024, era noto da tempo almeno tra gli addetti ai lavori anche perché tempestivamente diffuso dal Sole 24 Ore (vedi qui). È tuttavia solo con l’approdo in Parlamento – e l’avvio del ciclo di audizioni per la sua definitiva approvazione – che sono giunte alla attenzione dell’opinione pubblica le numerose criticità del provvedimento al punto che non si è esitato a parlare di “un attacco senza precedenti ai CCNL e ai lavoratori” (vedi il contributo di Alessandro Genovesi su Il diario del lavoro del 26 novembre 2024). I nodi problematici appaiono in realtà anche più ampi e generalizzati se è vero che persino alcune delle principali associazioni datoriali (Abi, Ania, Confcommercio, Confcooperative, Confindustria e Legacoop), in genere prudenti nei rapporti con la politica e il Parlamento, hanno inteso formulate dure riserve in ordine ai c.d. “criteri residuali” individuati dal correttivo al decreto legislativo n. 36/2023 (il codice appalti, appunto) per misurare la maggiore rappresentatività comparata delle organizzazioni sindacali e datoriali.
La previsione che ha destato maggiore attenzione è relativa alla modifica dell’articolo 11 del decreto legislativo n. 36/2023 con l’individuazione (vedi l’Allegato I.01) di una serie di criteri per dare concreta applicazione al “principio di applicazione dei contratti collettivi nazionali di settore” in caso di appalto pubblico.
L’articolo 11, comma 1, in estrema sintesi, impone agli operatori economici che partecipano alle gare pubbliche di applicare ai propri dipendenti il “contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”. La disposizione specifica, opportunamente, che deve trattarsi di un contratto collettivo nazionale di lavoro “il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto o della concessione svolta dall’impresa anche in maniera prevalente”. Allo stesso tempo, tuttavia, l’articolo 11, commi 3 e 4, consente al datore di lavoro di applicare anche un diverso contratto collettivo nazionale di lavoro, non connesso cioè alla attività oggetto dell’appalto e/o sottoscritto da organizzazioni sindacali che non assumono la qualifica di attori rappresentativi sul piano comparato, purché tale contratto collettivo garantisca il medesimo livello di tutele.
V’è chi ha sottolineato, al riguardo, un possibile contrasto del correttivo con la legge-delega là dove si prevede che le stazioni appaltanti “non possono imporre, a pena di esclusione, nel bando di gara o nell’invito l’applicazione di un determinato contratto collettivo quale requisito di partecipazione”, negando così il principio espresso proprio dall’articolo 11 del d.lgs. n. 36/2023 (M. Nevi, Correttivo al Codice degli appalti e relazioni industriali, Assosistema-Confindustria, 22 novembre 2024).
La portata pratica della previsione correttiva è in ogni caso evidente al punto da portarci a parlare di norma sbagliata. Più che semplificare le procedure, la riforma complica ulteriormente la gestione, mai facile e mai celere, di un appalto pubblico aumentando in modo esponenziale il rischio di contenzioso e di ricorsi, posto che è davvero difficile se non materialmente impossibile stabilire, anche per super specialisti della materia, quando due contratti collettivi nazionali di lavoro garantiscono ai prestatori di lavoro lo stesso livello di tutele (per un approfondimento e qualche esemplificazione vedi G. Piglialarmi, E. Poiani Landi, Appalti pubblici e contrattazione collettiva, in Casi e materiali di discussione: mercato del lavoro e contrattazione collettiva, CNEL, 2024, n. 21 e anche G. Piglialarmi, E. Poiani Landi, La contrattazione collettiva nel “nuovo” Codice dei contratti pubblici: problemi e prospettive, in Diritto delle Relazioni Industriali, 2024, n. 3).
L’articolo 2, commi 4 e 5, dell’Allegato I.01 prevede attualmente che là dove siano stati sottoscritti più contratti collettivi per la medesima categoria, ai fini della individuazione del contratto collettivo nazionale richiesto dall’articolo 11, comma 1, si potrà stabilire la rappresentatività comparata delle organizzazioni sindacali e datoriali avendo riguardo a: 1) il numero complessivo dei lavoratori associati; 2) il numero complessivo delle imprese associate; 3) la diffusione territoriale, con riferimento al numero di sedi presenti sul territorio a livello nazionale e agli ambiti settoriali; 4) il numero dei contratti collettivi nazionali di lavoro sottoscritti; 5) infine, la presenza di rappresentanti delle organizzazioni sindacali firmatarie i contratti collettivi nel CNEL.
Per quanto si possa trattare di indici ai quali la giurisprudenza sovente ha fatto ricorso per tentare di definire il grado di rappresentatività delle organizzazioni sindacali, non mancano perplessità al riguardo una volta piegati a una finalità diversa che è quella di fare una comparazione e una conseguente selezione tra soggetti rappresentativi.
Rispetto al numero di iscritti al sindacato è sufficiente notare che non vi è adeguata trasparenza al riguardo e che scarseggiano sistemi di certificazione da parte di enti terzi (e quei pochi attivi, fanno fatica a gestire i processi di attestazione e di aggiornamento del dato). Peraltro, il dato associativo non può assumere la medesima rilevanza quando deve essere calcolato nell’ambito delle organizzazioni datoriali, giacché da tempo gli esperti di relazioni industriali segnalano come al riguardo sia necessario ponderare il numero di imprese iscritte con la dimensione occupazionale delle stesse. Un conto, dunque, è rappresentare 100 imprese con una dimensione occupazionale media di 5 dipendenti ciascuna; altra cosa è rappresentare 50 imprese con una dimensione occupazionale media di 10.000 dipendenti ciascuna. Pensiamo, per esempio, al settore del credito e delle assicurazioni.
Altro nodo critico lo solleva l’indice relativo alla diffusione territoriale: non si può fare più mistero del fatto che non poche associazioni datoriali, come anche quelle sindacali, non siano dotate di “strutture proprie” per l’ordinario svolgimento dei servizi associativi ma in non pochi casi queste “strutture” sono organiche (se non addirittura coincidono) con studi professionali o banali letter box, cioè sedi “fantasma” e prive di una consistenza operativa (basti ricordare che qualche anno fa, nell’ambito di un contenzioso inerente la corretta individuazione di un CCNL sottoscritto da organizzazioni sindacali dotate di una certa rappresentatività, era emerso che una organizzazione sindacale aveva sede presso una società sportiva).
Inoltre, non pochi dubbi solleva l’opportunità di considerare tra gli indici anche il numero di contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni datoriali e sindacali. L’analisi dei testi contenuti nell’archivio nazionale dei contratti collettivi di lavoro del CNEL, con le rilevazioni dei flussi Uniemes su imprese e lavoratori a cui ciascun singolo CCNL si applica, conferma il principio secondo cui “firmare non vuol dire rappresentare”. Nel solo settore H-Terziario e servizi, per fare un esempio eclatante, risultano presenti ben 281 contratti collettivi nazionali di lavoro distribuiti in 14 sotto-settori, ma solo una quarantina di questi trovano poi applicazione a una popolazione lavorativa pari ad almeno l’1% dei dipendenti censiti sotto ciascun sotto-settore. La stragrande maggioranza dei contratti depositati per questo settore (almeno 240) si applica a un numero irrisorio di imprese e lavoratori, al punto da far dubitare se non della loro qualificazione come contratti nazionali di lavoro quantomeno della loro riferibilità al settore a cui pure (pre)tende di far riferimento il relativo campo di applicazione formale.
Rispetto al dibattito dei mesi passati sulla necessità o meno di una legge per fissare il salario minimo, si è detto che il settore pubblico è esente da criticità perché nessun dipendente pubblico riceve salari sotto i 9 euro. Ma questo non si può tuttavia dire per i numerosi lavoratori coinvolti in appalti pubblici che già oggi, in molti casi, ricevono trattamenti retributivi di gran lunga inferiori ai 9 euro (pensiamo solo alle centinaia di migliaia di lavoratori addetti a servizi di pulizia, guardianato e custodia). Le modifiche ipotizzate dal decreto correttivo, e lo diciamo da ricercatori senza alcun interesse di parte o alcuna collocazione politica, sicuramente peggioreranno la situazione per questi lavoratori.
Non solo. Le modifiche prospettate dal correttivo, oltre a impattare sulle procedure degli appalti pubblici (complicandole) e sui diritti dei lavoratori (peggiorandoli), rischiano oggettivamente di produrre danni rilevanti anche al nostro sistema di relazioni industriali nel suo complesso dando legittimazione e spazio ad attori privi di effettivo radicamento e rappresentatività, e cioè non riconducibili alla fattispecie sindacale di cui all’articolo 39 una volta letto in combinato disposto con gli articoli 1, 2, 3 e 35 della Costituzione, innescando coì dinamiche dagli effetti incontrollati per la tenuta del sistema e della sua effettività, che è una effettività non solo di tutela ma anche di interessi. Il concetto stesso di equivalenza tra contratti collettivi finisce infatti per sminuire l’essenza di un contratto collettivo che, secondo l’indimenticata lezione di Ezio Tarantelli, nel suo celebre studio del 1978 sulla funzione economia del sindacato, non è un banale meccanismo di fissazione dei salari e neppure un equivalente funzionale della legge ma un delicato e complesso sistema politico, sociale e istituzionale per il governo della economia.
La posta in gioco, col correttivo in esame, non è dunque tanto o solo rivolta alla correttezza degli appalti pubblici e alla selezione degli operatori economici che possono partecipare alle relative gare, ma la tenuta e l’effettività di un sistema di relazioni industriali che forse qualcuno ha interesse a sfasciare.
Giovanni Piglialarmi
Ricercatore Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
ADAPT Senior Fellow
@Gio_Piglialarmi
Michele Tiraboschi
Università di Modena e Reggio Emilia