Lo sciopero rituale. Se il conflitto diventa un cliché mediatico 

Bollettino ADAPT 2 dicembre 2024, n. 43
 
È quanto meno contraddittorio denunciare a ogni occasione utile l’irrilevanza sociale e politica del sindacato italiano e, allo stesso tempo, riempire per due settimane l’agenda dei media con commenti sull’ultimo sciopero generale.
 
Il copione si ripete ormai da tre anni: Cgil e Uil proclamano uno sciopero generale contro la legge di bilancio. Dichiarano adesioni medie “oltre il 70%”, mentre il governo sminuisce l’iniziativa definendola un “flop” e parlando di una “scarsa partecipazione”. La precettazione nel settore dei trasporti riduce la durata dello sciopero da 8 a 4 ore alimentando ulteriormente la tensione e fornendo gli elementi utili alla narrativa dello scontro tra istituzioni.
 
Fa riflettere come le cronache dello sciopero nell’autunno 2024, 2023 e 2022 siano quasi intercambiabili, al punto da poter essere sovrapposte senza suscitare particolare sospetto in un potenziale lettore. Tuttavia, quest’anno si è registrata una copertura mediatica più intensa rispetto agli scioperi generali degli anni precedenti. Tra i motivi, la scelta di Maurizio Landini di citare un numero assoluto, 500.000 persone in piazza, anziché percentuali generiche come negli anni passati, un dato certamente più capace di colpire l’immaginario collettivo, e allo stesso tempo un dato sia verosimile (non per forza vero), sia rilevante nell’anno 2024. Inoltre, l’attenzione è stata costruita con vari scioperi nel settore dei trasporti (e nella sanità) organizzati nelle settimane precedenti, incluso uno indetto dei sindacati di base. Anche il tono più elevato e diretto di Landini ha contribuito. La novità è stata l’enfasi su una “rivolta sociale” e sulla necessità di “rivoltare il Paese come un guanto”. Chiaramente un inedito nel linguaggio landiniano, benché rimanga ben lontano dalla retorica incendiaria di certa politica e di certo giornalismo d’area, che ora parla di “toni estremi”, divisivi, da “cattivo maestro”.
 
Checché se ne pensi, le opinioni circolanti si polarizzano: da un lato chi ritiene che una mobilitazione così ampia non possa essere ignorata, interpretandola come espressione di un disagio diffuso (anche se i sondaggi politico-elettorali non offrono riscontri compatibili); dall’altro chi sostiene che l’uso dello sciopero generale sia uno strumento non inefficace o controproducente, bensì obsoleto e sbagliato. La polarizzazione si traduce cioè in visioni fortemente normative, con una narrazione personalizzata: Landini contro il ministro Salvini. Il segretario che cerca di occupare il un ruolo di leadership politica della sinistra, Landini capopopolo; il Ministro autoritario, che detta la linea al Garante, che travalica le sue funzioni.
 
Quasi assenti, invece, sono le riflessioni sul merito: hanno ragione i sindacati scesi in piazza? Le richieste avanzate sono legittime e realizzabili? Quali potrebbero essere strategie alternative? Esito classico: la posizione della Cisl, che si distingue da quella di Cgil e Uil, finisce per essere marginalizzata, percepita come una tacita accondiscendenza al governo. Anche a causa di evidenti strategie editoriali dove le testate che hanno interesse a rappresentare anche la posizione del sindacato di via Po lo fanno per prossimità culturale quando va bene, o per strumentalizzare tale posizione quando va peggio.
 
Rarissime anche le analisi su temi centrali, come la richiesta di aumentare i salari o la convocazione tardiva dei sindacati a un tavolo di confronto dopo l’approvazione della manovra. Da qui si dovrebbe partire per sostenere le relative posizioni di fondo. Pena poter improvvisare una rappresentazione manichea e noncurante delle radici del fenomeno sindacale, come quelle che sentenziano che il sindacato “non deve fare politica”.  E invece quello che si evidenzia è una sorta di fallimento generale: i sindacati riescono a catalizzare l’attenzione mediatica, ma generando delle risposte che spesso vanno a discapito delle motivazioni stesse della protesta. E il dibattito restituisce una nuova variante dell’identico
 
Come avrebbe detto il teorico della comunicazione James Carey, non si tratta più di un processo informativo o trasformativo, ma quasi di un rituale espressivo e celebrativo. In tale contesto, persino valutare il significato dell’effettiva partecipazione allo sciopero diventa complesso. La presenza in piazza di migliaia di persone viene ridotta a un elemento coreografico di una liturgia nota, e non rappresenta dunque una ispirazione contagiosa, che possa ampliare la mobilitazione oltre i suoi attuali confini. Il risultato è uno scontro a suon di frasi ad effetto tra le alte sfere, mentre le ragioni e le motivazioni profonde dello sciopero rimangono sullo sfondo, prive di una reale centralità nel discorso pubblico. Con l’effetto paradossale che al conflitto evocato dalle parti contrapposte corrisponde una immobilità di fondo.
 
Se esiste una crisi visibile, non è quella (o solo quella) della rappresentanza sindacale, ma anche quella della sua rappresentazione da parte di chi ha il compito di dare forma a un dibattito di interesse collettivo.
 
Francesco Nespoli
Ricercatore Università di Roma LUMSA

ADAPT Senior Fellow

@Franznespoli

Lo sciopero rituale. Se il conflitto diventa un cliché mediatico 
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