“Direttiva tirocini”: la posizione delle associazioni di rappresentanza italiane

Bollettino ADAPT 2 dicembre 2024, n. 43

 
Proprio in questi giorni è in discussione presso il Consiglio dell’UE la proposta direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al miglioramento e alla garanzia del rispetto delle condizioni di lavoro dei tirocinanti e alla lotta ai rapporti di lavoro regolari camuffati da tirocini. In parallelo al procedimento legislativo euro-unitario, in Italia la proposta di direttiva è stata è stata oggetto di riflessioni e consultazioni anche in Parlamento: è stata infatti assegnata in esame congiunto alle Commissioni VII-Cultura e XI-Lavoro, nonché alla Commissione XIV-Politiche dell’Unione Europea, le quali si sono avvalse dei pareri delle parti sociali coinvolte.
 
Di seguito si analizzeranno i contenuti delle audizioni svolte con i diversi stakeholder al fine di delineare un quadro delle posizioni assunte dalle associazioni di rappresentanza italiane in merito alla proposta di direttiva e di revisione della raccomandazione del 2014 utile anche a comprendere da una prospettiva più ampia il loro punto di vista sullo strumento del tirocinio.
 
Le audizioni hanno coinvolto le parti sociali rappresentative dei diversi soggetti a cui la direttiva in oggetto si rivolge: datori di lavoro, lavoratori e giovani in transizione scuola-università-lavoro. In particolare sono stati consultati, in rappresentanza dei datori di lavoro,  Confindustria; in rappresentanza dei lavoratori, CGIL, CISL e UIL, USB e UGL; in rappresentanza degli studenti e dei giovani impegnati nella transizione verso il mercato del lavoro, UDU (Unione degli Universitari),  Coordinamento universitario, la testata online La Repubblica degli Stagisti; e, in ultimo, il CESE (Comitato Economico e Sociale Europeo), organo consultivo dell’UE che comprende rappresentanti delle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro e di altri gruppi d’interesse.

 
Le proposte di direttiva e di revisione della raccomandazione del 2014 per un tirocinio di qualità (vedi M. Corti, F. Simonini, La “direttiva tirocini” in gestazione: oggetto di un procedimento legislativo complesso e dall’epilogo incerto, in questo bollettino) sono state accolte in modo complessivamente positivo, per il tentativo di armonizzazione a livello europeo e di lotta ai contratti di lavoro stabili “camuffati” per tirocini, benché non siano mancati alcuni rilievi critici.
 
La prima criticità, rilevata pressoché all’unanimità, risiede nella difficoltà di definire una normativa valida per tutti gli Stati membri, che riesca a tenere conto delle specificità locali. Il quadro normativo europeo è infatti estremamente variegato. Un primo esempio della complessità legata al tentativo di uniformare il quadro giuridico in materia di tirocini emerge già a livello definitorio: nel corso delle audizioni infatti le parti hanno sottolineato a più riprese l’incompatibilità della definizione di “tirocinante” proposta dalla direttiva con quella applicata in Italia. La direttiva limiterebbe il perimetro ai tirocinanti che hanno un regolare contratto di lavoro, escludendo di fatto quelli italiani che, per stessa natura del contratto, non sono riconosciuti come lavoratori né equiparati.
 
Alla difficoltà definitoria si somma poi una frammentarietà a livello di contenuti, o meglio, di obiettivi. Le stesse parti sociali coinvolte nelle audizioni sembrano non essere del tutto allineate sulle finalità implicite ai percorsi di tirocinio: le associazioni studentesche e sindacali ne difendono lo scopo prioritariamente formativo e orientativo, separandolo in maniera più o meno netta da quello di politica attiva. Secondo CGIL infatti «l’istituto ha nel tempo perso la sua originaria caratterizzazione quale strumento di formazione post-istruzione, in conseguenza della revisione della disciplina messa in atto nell’ultimo decennio che ha accentuato il ruolo del tirocinio extracurriculare come strumento di politica attiva, subordinando all’obiettivo occupazionale la finalità formativa e orientativa dell’istituto» (Memoria CGIL). CISL, a sua volta evidenzia che il rischio di assimilare il tirocinio a lavoro sia di allontanarlo «progressivamente da ciò che il tirocinio dovrebbe essere, ossia un percorso di formazione e orientamento on the job» (Memoria CISL). Anche UDU sostiene la necessità di distinguere le finalità proprie dei tirocini tra formazione e politica attiva nel chiedere «una norma più stringente che non permetta rapporti di lavoro grigi e fumosi, che riconduca, senza possibilità di vie di fuga, la misura del tirocinio entro i confini di un percorso di formazione finalizzato all’apprendimento, eludendo qualsiasi possibilità di servirsi dello stesso per mettere in atto sfruttamento lavorativo» (Memoria Scritta Unione degli Universitari).
 
Questa separazione tra finalità formativa e politica attiva sembra invece essere meno netta per Confindustria e CESE: secondo quest’ultimo infatti «i tirocini sono anzitutto un’esperienza di formazione e apprendimento volta a sviluppare abilità e competenze (specie quelle dei giovani) migliorando l’occupabilità e le prospettive professionali e contribuendo alla formazione di una mentalità imprenditoriale» (Parere CESE).
 
Tutto sommato condivise, invece, le posizioni delle parti audite sui capitoli delle proposte di direttiva e di revisione della raccomandazione in materia di controlli e sanzioni: tutte le parti sociali concordano sull’importanza di disporre di un sistema di monitoraggio efficace che tenga conto anche delle possibili difficoltà degli stessi tirocinanti ad esporsi e denunciare eventuali situazioni illecite. Tuttavia, se i sindacati sostengono la necessità di un potenziamento dei controlli, e CISL sollecita gli Stati membri a sostenere le autorità competenti con risorse umane e finanziarie sufficienti, Confindustria rileva che nel nostro Paese sia già assicurato un capillare sistema di monitoraggio da parte dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro che non necessita quindi di ulteriori modifiche, contrariamente a quanto riportato da CGIL che, nel corso della sua audizione, ha osservato come il grande numero di tirocini attivati in Italia nell’ambito di professioni poco qualificate sia un segnale dell’ampiezza del fenomeno dell’uso improprio dello strumento.
 
A dividere le parti è soprattutto il tema degli standard minimi da garantire ai tirocinanti. Nonostante tutte reputino critica la mancanza di una lista di parametri minimi all’interno della direttiva e si riscontri una univocità di intenti ad esempio in merito agli standard di salute e sicurezza sul lavoro da garantire ai tirocinanti – che non devono essere diversi da quelli dei lavoratori – o alla necessità di stabilire una durata massima dei periodi di tirocini o ancora, di esigere che i datori di lavoro presentino specifiche caratteristiche per poter attivare determinati tirocini, le posizioni tendono a divenire più frammentate se si considerano altri fattori quali ad esempio il riconoscimento economico. Anche in questo caso la prima impasse che si presenta è in termini definitori: non essendo i tirocini in Italia dei rapporti di lavoro non sarebbe corretto parlare di “retribuzione”, quanto piuttosto di “indennità”, da riconoscere ai tirocinanti per la copertura delle spese e per garantire a tutti di poter usufruire dello strumento senza creare discriminazioni in entrata.
 
Da un lato infatti le associazioni studentesche chiedono a gran voce una “retribuzione” dignitosa per i tirocinanti, propone l’istituzione del salario minimo per i tirocini e Repubblica degli Stagisti che vengano retribuiti anche i tirocini curriculari. Dall’altro lato, invece, le associazioni sindacali, insieme al CESE, appaiono più caute, chiedendo il riconoscimento di una “indennità” congrua, mentre Confindustria, anche in questo caso, si attiene ad una posizione in difesa dell’attuale sistema, che già vieta l’attivazione di tirocini extracurriculari gratuiti. Preme sottolineare a questo proposito che, per quanto ai tirocinanti in Italia spetti effettivamente un’indennità, il quadro nel Paese è estremamente frastagliato e fonte di inevitabili disparità interne: come riporta la stessa UDU nella sua memoria (Memoria Scritta Unione degli Universitari) infatti «l’importo minimo delle indennità mensili varia significativamente, da 300 euro in Sicilia a 800 euro nel Lazio, riducendo l’accessibilità ai tirocini e compromettendo la sostenibilità per coloro che necessitano di supporto finanziario». In questa direzione, CGIL e CESE richiedono un maggiore coordinamento a livello statale in materia di tirocini.
 
Intorno al nodo indennità-retribuzione si gioca del resto, e da tempo (Vedi M. Tiraboschi, Tirocini: ora è la volta di quelli curriculari, Bollettino ADAPT11 apprile 2022, n. 14), la tensione tra la natura formativa del tirocinio e la lotta all’uso irregolare dell’istituto. Da un lato, le associazioni studentesche, di regola allineate con il sindacato tranne proprio in materia di retribuzione, chiedono che i tirocini extracurriculari vengano riconosciuti come veri e propri contratti di lavoro, o almeno che ai tirocinanti vengano riconosciuti gli stessi diritti dei lavoratori. Dall’altro lato, i sindacati, in particolare CISL e UIL, insieme a Confindustria, propongono una prospettiva del tutto opposta.
 
Secondo CISL infatti far rientrare i tirocini nel novero dei contratti lavorativi equivarrebbe a legittimarne l’uso improprio, nonché a porre in concorrenza le diverse tipologie di contratto, con il risultato di favorire ulteriormente il lavoro povero. «A nostro avviso» – afferma il rappresentante della Cisl «l’approccio per il quale […] i tirocinanti dovrebbero avere accesso agli stessi diritti e tutele dei lavoratori sanciti da una serie di direttive europee […] rischia paradossalmente di “legittimare” l’uso distorto del tirocinio e di porlo in concorrenza con un rapporto di lavoro […]. Per contrastare l’utilizzo camuffato, che esiste in tutti i paesi europei, pur non essendo così generalizzato […] l’approccio andrebbe ribaltato: poiché il tirocinio non deve essere usato in sostituzione di un normale rapporto di lavoro, non va regolamentato e tutelato allo stesso modo di un rapporto di lavoro, ma disciplinato con regole diverse che ne limitino a monte le possibilità di utilizzo, lo corredino con alcune tutele di base e una forte attenzione alla formazione e si impegnino a contrastarne con misure adeguate i casi di utilizzo improprio, anche attraverso un rafforzamento del sistema ispettivo» (Memoria CISL).
 
Allo stesso modo, per UIL l’assimilazione dei tirocini ai rapporti di lavoro ordinari comporterebbe un maggiore rischio di precarizzazione, mentre per Confindustria i tirocini si finirebbero per fare concorrenza ai contratti a tempo determinato. Anche CGIL sembra preferire il mantenimento della distinzione tra tirocini e lavoro in quanto «una visione del tirocinio eccessivamente sbilanciata sul versante dell’inserimento lavorativo rischia di condurre a un pericoloso accostamento tra tirocinio e lavoro» (Memoria CGIL).
 
Alla luce dei ragionamenti sin qui riportati, tutte le parti sociali coinvolte, comprese le associazioni studentesche, convengono che l’unico strumento in grado di garantire formazione, un equo inserimento nel mondo lavorativo e condizioni di lavoro più favorevoli sia l’apprendistato e che per questo motivo debba essere tutelato e promosso come alternativa – UIL propone l’abrogazione dei tirocini extracurriculari – o come naturale evoluzione del tirocinio (purché per quest’ultimo sia prevista una durata limitata). Dalle audizioni emerge altresì una esplicita presa di posizione contro una possibile sovrapposizione dei due strumenti, in contrapposizione con quanto previsto dal Considerando 17 della direttiva stessa secondo cui «gli apprendistati possono rientrare nell’ambito di applicazione della presente direttiva nella misura in cui gli apprendisti rientrano nella nozione di “lavoratore” quale definita dal diritto, dai contratti collettivi o dalle prassi in vigore negli Stati membri, tenendo conto della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea».
 
Di diverso segno, rispetto ai tirocini extracurriculari, la posizione adottata dalle parti in merito a quello curriculare – che come si è visto non è considerabile oggetto della direttiva, ma solo della raccomandazione – su cui tutti i soggetti coinvolti nelle audizioni hanno espresso pareri favorevoli riconoscendone il valore sia a livello di formazione e orientamento che, come sottolinea UIL, come strumento di lotta alla dispersione scolastica. Le parti rilevano altresì la necessità di potenziare i tirocini curriculari in un’ottica di dialogo tra mondo dell’istruzione e mondo del lavoro, ma soprattutto di garantire maggiori tutele ai tirocinanti e una maggiore trasparenza, considerato che sui curriculari non esistono dati, né è previsto un monitoraggio specifico: è sempre UIL, a questo proposito, a proporre l’estensione dell’obbligo di comunicazioni obbligatorie anche ai tirocini curriculari.
 
Da non sottovalutare in ultimo è senza dubbio il ruolo che potrebbero giocare le parti sociali in questo contesto, non solo come portatori delle istanze dei diversi gruppi di interesse, ma anche in qualità di veri e propri attori con cui collaborare, specialmente nel monitoraggio dei rapporti di tirocinio, anche a partire da quanto previsto dall’art. 8 della stessa proposta di direttiva che prevede un ruolo attivo dei rappresentanti dei lavoratori nella tutela dei tirocinanti per far valere i diritti e gli obblighi derivanti dalle normative dell’Unione applicabili ai lavoratori.
 
Se in passato le parti sociali hanno fatto fatica ad occuparsi di questi temi (Vedi Tiraboschi M., “Garanzia giovani”: le illusioni della politica sono una insidiosa trappola per il sindacato, Bollettino ADAPT 19 ottobre 2020, n. 38) le audizioni in oggetto dimostrano che il sindacato può avere voce anche nel guidare il dibattito e le pur giuste istanze delle associazioni studentesche.
 

Arianna Zanoni

PhD Candidate ADAPT – Università di Siena

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