Bollettino ADAPT 9 dicembre 2024 n. 44
Ha fatto notizia lo sciopero dei dipendenti di UbiSoft destinato a contrastare la decisione aziendale di ridurre le giornate di smartworking. L’agitazione conferma la sensibilità dei lavoratori al tema e riporta l’attenzione su di uno strumento le cui potenzialità non sembrano essere state ancora comprese fino in fondo.
Nell’idea del Legislatore del 2017 il “lavoro agile” (questa la terminologia utilizzata dalle Legge n. 81/2017) avrebbe dovuto, da un lato, “incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” e, dall’altro lato, sviluppare forme di organizzazione del lavoro “per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo”.
Senonché l’applicazione pratica dello smartworking è stata di moltissimo influenzata (se non dominata) da due eventi globali: la pandemia del 2020/2021 e la crisi energetica del primo semestre 2022. Le differenti problematiche ingenerate da questi due eventi (prodottisi pressoché consecutivamente) sembrano aver condizionato un corretto approccio alle vere caratteristiche dello strumento e una piena attuazione del suo potenziale.
Difatti, dapprima la pandemia del 2020/2021 ha determinato l’improvviso quanto massiccio utilizzo (con il solo limite della possibilità tecnica) del lavoro agile nella sua modalità “emergenziale” e “domiciliare”. Il lavoro agile era cioè unicamente finalizzato a consentire la continuità dell’operato aziendale; venendo però a coincidere con l’impossibilità di uscire di casa ciò ha contribuito a ingenerare – in particolare per i lavoratori – confusione tra il “lavoro agile” e “lavoro domiciliare” e l’idea che potesse esistere un vero e proprio “diritto” allo smartworking.
Di converso, superato il periodo “domiciliare” pandemico, la crisi energetica del primo semestre del 2022 ha sollecitato molte imprese a utilizzare il lavoro agile con la tacita finalità di contenere i costi (ad esempio provvedendo alla chiusura delle sedi per alcuni giorni della settimana risparmiando per l’appunto sui costi energetici).
E ciò è avvenuto nonostante l’applicazione dello strumento sia stata accompagnata anche da numerosi confronti tra le parti sociali aziendali.
I confronti sindacali però si sono focalizzati, nella stragrande maggioranza dei casi, sulla sola analisi e sulla conseguente apposizione di restrizioni “agli orari e ai luoghi di lavoro” – e cioè sulle concrete modalità di svolgimento della prestazione in smartworking – senza soffermarsi sulla possibile nuova realizzazione di un’organizzazione del lavoro “per fasi, cicli e obiettivi”.
La maggior parte delle applicazioni pratiche dello strumento appare cioè “zoppa”. Pochi – e virtuosi – sono gli esempi in cui il lavoro agile ha portato con sé anche la connessa riflessione su di una diversa gestione del rapporto di lavoro più legata agli obiettivi che alla sola analisi circa i luoghi e i tempi della prestazione lavorativa.
Proprio lo sciopero di cui discutiamo e le recenti “retromarce” di alcune aziende (come, ad esempio, la decisione di Amazon di eliminare del tutto la possibilità di svolgere lavoro “da casa”) confermano come lo strumento sia ancora in gran parte da scoprire.
Quanto alle rivendicazioni dei lavoratori, infatti, giova in primo luogo precisare che esse parrebbero prive di appigli concreti, perché non esiste un vero e proprio “diritto allo smartworking”.
Difatti, ai sensi dell’art. 19 della Legge n. 81/2017, il lavoro agile deve essere necessariamente frutto di un accordo tra le Parti (lavoratore ed azienda). Inoltre, persino nel caso in cui l’accordo sia stipulato a tempo indeterminato è comunque possibile per il datore di lavoro recedere con un preavviso non inferiore a 30 giorni, senza specifiche motivazioni.
Senonché il caso dello sciopero UbiSoft dimostra che la percezione che i lavoratori hanno dei benefici del contratto di smartworking esula dalla mera modalità di svolgimento della prestazione lavorativa. Gli aderenti allo sciopero hanno difatti dichiarato che le loro rivendicazioni riguardavano prevalentemente tematiche inerenti alle conseguenze che lo smart working genera in termini di risparmio economico o di conciliazione vita/lavoro (come, ad esempio, la possibilità di prendere casa anche fuori dalle grandi città, il risparmio economico e di tempo negli spostamenti, l’impatto in termini di sostegno alla genitorialità).
Insomma, i lavoratori sembrano ormai considerare lo smartworking un tratto caratterizzante delle proprie aspettative di vita nonché parte integrante del trattamento previsto quale corrispettivo dell’attività lavorativa.
D’altro canto, tematiche di buona fede e correttezza e, ancor di più, di retention dei lavoratori, obbligheranno sempre più le aziende a non ignorare le vere aspettative dei lavoratori.
L’incontro tra le due diverse esigenze inevitabilmente richiede un atteggiamento consapevole delle Parti e ancor di più del sindacato ogni qualvolta fosse interpellato a contribuire alla costruzione di modelli adeguatamente bilanciati. Sotto questo profilo destano preoccupazione le ritrosie a più riprese manifestate dal sindacato dei lavoratori in merito a temi ormai focali – e intrinsecamente connessi con lo smartworking – quale il fatto che, una volta autorizzata, la prestazione a distanza possa essere legittimamente controllata dal datore di lavoro, pur nel rispetto della normativa privacy.
Tale pluralità di istanze necessita sempre più di un confronto positivo e moderno tra le Parti (aziende, lavoratori e sindacati) in quanto solo l’insieme dei fattori sopra citati potrà portare a trovare equilibri, sempre perfettibili ma adeguati alle singole situazioni e potrà fornire concreta attuazione anche all’incremento della competitività delle aziende che la norma auspica.
Simone Brusa
Avvocato
Olindo Genovese
Avvocato