Bollettino ADAPT 17 marzo 2025 n. 11
Ringrazio il gruppo Freccia Rossa per aver condiviso e sottoposto alla riflessione dei colleghi un articolato compiuto per una possibile riforma della disciplina dei rimedi al licenziamento illegittimo. E mi complimento già per questo, dal momento che, a fronte delle travagliate riforme del 2012 e del 2015, proposte di nuovi interventi legislativi, quanto meno nell’ottica di una razionalizzazione, sono state a più riprese affacciate, ma in termini generali con indicazioni di principio e mai sotto forma di articolato.
In questa sede mi limito ad alcune osservazioni minimali. A me pare che il progetto – lo rilevava già Lello De Luca Tamajo – sostanzialmente codifichi, introducendovi però aggiustamenti, il risultato cui ci hanno fatto pervenire gli interventi della Corte costituzionale prima sul Jobs Act, poi sulla legge Fornero e successivamente ancora sul Jobs Act (e tenendo conto anche della giurisprudenza ordinaria, come sottolineava Carlo Zoli).
E se anche fosse semplicemente un’operazione di codificazione, con qualche suggerimento interpretativo alla giurisprudenza, sarebbe già molto utile.
Come sappiamo tutti, gli ultimi interventi della Corte costituzionale e in particolare le sentenze n. 128 e n. 129 del 2024 hanno sostanzialmente rimodellato e ricondotto all’impostazione della legge Fornero (almeno quanto alla scelta tra reintegrazione e indennità) il regime dei rimedi al licenziamento illegittimo per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, nonostante le sue ambiguità e i suoi compromessi. E salvo lo scostamento che conosciamo tutti in materia di licenziamenti collettivi e di piccole imprese.
Chi si attendeva che la problematica, dal punto di vista applicativo, disciplina della legge Fornero, con il passare del tempo e l’esaurirsi dei rapporti di lavoro da essa governati, lasciasse spazio all’applicazione del Jobs Act, aggregato intorno ad un’impostazione meno compromissoria, è rimasto deluso.
Con il “ritorno” al modello della legge Fornero ritorna la difficile, a mio avviso anzi ingovernabile, frantumazione del sistema sanzionatorio a seconda che sussista o non sussista il fatto integrante la giusta causa o giustificato motivo, che ha prodotto una implausibile se non insensata discussione su che cosa rientra nel fatto e che cosa non rientra nel cosiddetto “fatto”; implausibile se non insensata, tanto più nel caso del giustificato motivo oggettivo, come emerge dalla deludente, proprio dal punto di vista interpretativo, sentenza n. 128 del 2024 della Corte costituzionale, che mi pare non abbia convinto nessuno.
Lo rilevavo recentemente in un convegno in cui erano presenti anche Franco Scarpelli e Maria Teresa Carinci: abbiamo vissuto più di cinquant’anni parlando di giusta causa e di giustificato motivo senza “scomodare” il fatto, scomodato solo per ragioni di compromesso politico dalla legge Fornero che ha tentato, in questo modo, un delicato dosaggio tra rimedio indennitario e rimedio ripristinatorio nell’ambito del licenziamento ingiustificato, da utilizzare oltre il licenziamento discriminatorio/nullo.
Nel progetto, con decisione forse più realistica dal punto di vista politico che convincente da un punto di vista logico, non viene messa in discussione la frantumazione del regime sanzionatorio del licenziamento sia disciplinare sia per motivo oggettivo a seconda della gravità del vizio, cercando di renderla più governabile.
E ciò sia nel licenziamento disciplinare, con il riferimento alle infrazioni specificamente tipizzate nel codice disciplinare con espressa previsione di sanzione conservativa, sia nel licenziamento per motivo oggettivo.
Ma è forse proprio il caso del licenziamento per giustificato motivo oggettivo quello in cui più si manifesta l’ingovernabilità del doppio rimedio. Il criterio distintivo proposto sta nella insussistenza della “modifica organizzativa” posta a base del licenziamento o del nesso di causalità (per cui scatterebbe la reintegrazione) ovvero nella violazione dell’obbligo di ricollocazione e dei criteri di scelta del lavoratore licenziato (per cui scatterebbe l’indennità).
A parte che ricordo che nella nozione legale di giustificato motivo oggettivo non vi sono solo le modifiche organizzative ma anche le “ragioni inerenti all’attività produttiva” (ad es. calo di commesse), non si comprende davvero la ragione di questa scissione, dal momento che a me pare (ed anzi mi è sempre parso) che, se bene intesa, se cioè intesa come lo era stata alle origini, l’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni faccia parte quanto meno del nesso causale.
Se inteso in senso ragionevole, come era stato inteso dalla giurisprudenza delle origini, l’onere di provare l’impossibilità della ricollocazione del lavoratore in altra mansione ha sempre presidiato la non pretestuosità del licenziamento; presidio che è necessario stante l’insindacabilità della decisione produttiva od organizzativa a monte (insomma, un po’ la prova del nove).
Poi, a partire di qua, cioè da una maggiore chiarezza sulla nozione di giustificato motivo oggettivo, è lecito anche discutere se, in ipotesi e nonostante quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 128, possa stare in piedi un regime differenziato per il licenziamento disciplinare e per quello per giustificato motivo oggettivo.
Nella proposta di riforma è trattato il tema delicatissimo, ed oggi topico, del regime applicabile alla piccola impresa. Se si volesse dare corso al monito della Corte costituzionale contenuto nella sentenza n. 183 del 2022 e tenere conto della nuova ordinanza di rimessione alla stessa Corte da parte del Tribunale di Livorno, questo sarebbe il tema prioritario di un’iniziativa legislativa.
Qui mi pare tuttavia che la strada sia sostanzialmente segnata (e collaudata) sia sul piano del quantum sia sul piano dei livelli da cui far partire la tutela differenziata. Ed è segnata dalla l.n. 604 del 1966 (che prevede un range da 2,5 fino a 10 mensilità di retribuzione, che possono arrivare a 14 nel caso di lavoratori con più di 20 anni di anzianità ed impiegati in imprese occupanti più di 15 dipendenti, con i relativi criteri di calcolo). Modello che non mi pare sia mai stato oggetto di censure da parte della Corte costituzionale.
Sul tema complesso dei criteri per l’individuazione delle soglie – e per la verità oggetto di un dibattito assai risalente – confesso che non mi sono fatta un’opinione, per formarsi la quale, del resto, sarebbe molto utile da una parte ricostruire la ratio della disciplina differenziata e, d’altra parte, guardare anche al diritto comparato. Ho trovato comunque di molto buon senso le osservazioni di Antonio Viscomi, che ha enumerato tutte le controindicazioni di criteri che si discostano dal numero degli occupati. È questa l’area di intervento legislativo più urgente lasciataci dalla Corte costituzionale, e forse più a portata di mano, su cui conviene maggiormente esercitarsi.
Mariella Magnani
Professoressa emerita di Diritto del lavoro dell’Università di Pavia
*Intervento dell’Autrice al Seminario “Unificazione e semplificazione del regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: una proposta di riforma”, Bologna, 21 febbraio 2025.