Quando durante la quiete agostana la questione dell’abolizione dell’articolo 18 è ricomparsa sulla scena del dibattito politico per mezzo delle parole di Angelino Alfano, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi si è prontamente adoperato per ricondurre la discussione nella famiglia dei dibattiti ideologici di lungo corso, come tali dogmatici, sterili, aprioristici. L’altro ieri dalla Fiera del Levante, parlando di “superamento” e “ammodernamento” Renzi ha poi voluto inquadrare i termini della questione nel più ampio contesto dell’auspicata riscrittura dell’intero Statuto dei Lavoratori, ridimensionando ancora il valore della contesa specifica sul singolo articolo e ribadendone così la natura di “suggestione, più che di sostanza”.
Renzi sembra conoscere bene le trappole comunicative dello scacchiere politico e di certo questo è l’ultimo dei terreni sui quali sarebbe disposto a lasciarsi cogliere di sorpresa. Il capo del Governo aveva cominciato a prendere le misure con la dimensione comunicativa del licenziamento individuale durante un altro periodo di festività: quello natalizio del 2013, quando aveva finalmente cominciato a parlare alla scena (anche allora sgombra) dei media, dei punti cardine del già più volte promesso Job Act. Erano bastate le prime pur lievi reazioni alla citazione dell’articolo 18 per convincere Renzi a portare il dibattito lontano da quel pantano retorico e non farvi più ritorno.
E’ certamente anche così che il premier è riuscito nell’acrobatico intento di mantenere in equilibrio opposte tensioni nella sua composita maggioranza, convogliandole sin qui a favore del processo di riforma.
Vennero così la virata a sorpresa dal contatto unico all’apprendistato e al lavoro a termine, con il “compromesso al ribasso” tra gli opposti orientamenti per la conversione del c.d. decreto Poletti; e solo il 3 aprile scorso la presentazione del disegno di legge delega, parte due del Job Act (a cui nel frattempo era spuntata una “s”).
Era chiaro fin dall’inizio che alla prova dei contenuti di dettaglio il peso di chi avesse rischiato di uscire scontentato dalla versione finale della delega, avrebbe contato; ed è quello che anche sta volta potrebbe avvenire nel plausibile nuovo compromesso tra Camera e Senato.
Domani il provvedimento sarà di nuovo all’esame della Commissione Lavoro al Senato, proprio per la parte che coinvolge la questione del licenziamento individuale (cfr F. Seghezzi). Eppure sconforta vedere come, nonostante gli sforzi di Renzi e Poletti, la discussione tra addetti ai lavori e commentatori tenda a ristagnare attorno a un argomento tanto discusso quanto simbolico.
Fatti i dovuti distinguo, infatti, un’eventuale cancellazione del contestato articolo non produrrebbe ricadute sulla popolazione attiva complessivamente maggiori di quelle degli emendamenti approvati giovedì scorso in Commissione al Senato.
E’ proprio per la natura meramente comunicativa della discussione che Renzi se ne tiene alla larga il più possibile, come tende a tenersi lontano da manifestazioni e campagne che non hanno una particolare sostanza dietro la forma.
Il difetto di Renzi non è stato infatti sin qui tanto quello di fare annunci ai quali non sia seguito in qualche maniera l’avvio di un processo legislativo, ma semmai quello di avere fatto troppi annunci, che hanno dato luogo a troppi processi legislativi, l’uno colpevole del ritardo dell’altro.
Per lo stesso motivo il Presidente del Consiglio si è recentemente trovato di fronte alla necessità di “rieducare” il suo pubblico a una spartitura più lenta dei lavori, passando dalla disneiana “differenza tra il sogno e il progetto” (con la conseguenza delle troppe date non rispettate, innanzitutto sul lavoro) alla recente trovata dei “mille giorni”: forse la mossa di comunicazione più scevra di novità, perché non fa altro che registrare lo status quo dei rallentamenti.
Tanto da far pensare piuttosto alle “mille e una notte” delle riforme del lavoro italiane, che con la nuova calendarizzazione dell’esame del disegno di legge delega, così centrale ma così sempre in ritardo rispetto a quanto vorrebbe l’UE, si impongono minacciose all’orizzonte.
A guardare alla storia recente sembra proprio che sia lo stallo istituzionale sul nodo del licenziamento ad alimentare il circolo vizioso di questo dibattito. Perché se è vero che la prospettiva dell’introduzione di un contratto unico a tutele crescenti implica l’interpretazione della tutela stessa, è ancor più vero che non sarebbe l’intervento su un singolo articolo a determinare un aggiornamento dello Statuto dei Lavoratori sufficiente ad adeguare flessibilità e tutele ai nuovi modi di esercitare il lavoro.
Pare quantomeno ottimistico pensare che una riscrittura complessiva dello Statuto possa avvenire sulla base di un testo di delega così vago ed esiguo, come auspicato anche dal versante renziano del PD.
D’altronde la storia recente sembra averlo già insegnato: quando meno le condizioni permetterebbero una reale modifica del licenziamento individuale, come è oggi e come era nel 2002 (ricordando che per Marco Biagi l’articolo 18 non costituiva in sé una priorità) tanto più si assiste a speculari levate di scudi. Mobilitazioni al cui cospetto le sollevazioni generato dal più incisivo intervento in materia dal varo dello Statuto, quello effettuato dalla riforma Fornero, paiono solo un timido lamento.
Non sarà quindi scienza esatta, ma sembra che di articolo 18 si parli di più quando serva a fare ristagnare la discussione, mentre il disinteresse verso il resto del disegno di legge delega dimostra quanto ricco sia il panorama del lavoro, così scarsamente raccontato e divulgato nel nostro paese. Politiche attive, ispezioni, semplificazione, conciliazione vita-lavoro, ammortizzatori sociali, tutti temi all’ombra di una sorta di talismano scarico, che tutela poche persone e che è da solo quasi irrilevante per le sorti dell’occupazione italiana.
ADAPT Research fellow