Lo Statuto dei lavoratori, con al centro l’articolo 18, che rende non licenziabile se non per via giudiziaria il personale di imprese con oltre 15 dipendenti, è del 1970. Le leggi Hartz che hanno modernizzato il lavoro in Germania sono del 2003. Le norme sul lavoro danesi, basate sulla flexicurity, con la quale hanno pur brevemente flirtato i riformisti italiani sono dei primi anni Novanta. Stessa cosa per modelli analoghi in Olanda e Svezia. Perfino l’iperstatalista e supersindacalizzata Francia nel 2013 ha approvato una riforma del mercato del lavoro che facilita licenziamenti e assunzioni, e avvicina l’impiego pubblico al privato. La Spagna ha appena attuato l’ennesima legge iper-flessibile, abbassando a 20 giorni per ogni anno di lavoro l’indennità minima di licenziamento (il reintegro non è contemplato). Per non parlare di Gran Bretagna e Stati Uniti, dove la breccia fu definitivamente aperta da Margaret Thatcher e Ronald Reagan, il quale nel 1981 licenziò 11 mila controllori di volo, pagati dallo stato, che paralizzavano il paese. Perfino la Cina dal 2008 ha una legge sul lavoro che rispecchia modelli di mercato.
Insomma, l’Italia ha le leggi sul lavoro privato e pubblico più arcaiche d’Europa e dell’intero mondo industrializzato. Infatti l’Ocse nel diffondere ieri previsioni cupe sul pil italiano nel 2014 (meno 0,4 per cento, unici del G7 in recessione), le accompagna all’ennesimo invito alla riforma del lavoro, “compreso l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori”. Diversamente, dice, “i giovani italiani subiranno un calo permanente delle prospettive di occupazione. Né bastano le recenti liberalizzazioni dei contratti a termine: anzi, potrebbero accrescere il dualismo tra protetti e non”. La revisione al ribasso del pil, la maggiore tra quelle diffuse finora (Standard & Poor’s ha a sua volta portato la propria da 0,5 a 0) arriva proprio mentre il governo manda in Parlamento il Jobs act, la legge delega sul lavoro. Un testo che secondo le indiscrezioni prevede l’emendamento-ponte: che cioè potrebbe sia abolire le tutele dell’articolo 18, sia invece limitarsi a introdurre il contratto a tutele crescenti. Ovvero tre anni sen articolo 18 per i neo assunti, e poi tutto come prima. L’ambiguità non è dettata da un arretramento di Matteo Renzi dagli iniziali propositi riformisti (l’addio alla concertazione), quanto dalle diverse composizioni delle commissioni Lavoro al Senato e alla Camera decise dalla segreteria Bersani.
A Montecitorio su 21 esponenti del Pd in commissione 10 sono ex della Cgil, compreso il presidente Cesare Damiano. Confindustria vola tra la terra e la polvere Per questo lo Statuto dei lavoratori, che come la Resistenza vive di glorie passate, ma che venne scritto quando c’era la Cortina di ferro, andrebbe certo rottamato. Rischia invece di tenere l’Italia incatenata al passato, come del resto l’altra legge sul lavoro pubblico: il Testo unico del pubblico impiego risale addirittura al ’57 e dal 1998 dovrebbe teoricamente equiparare impiegati e dirigenti dello stato a quelli privati. Teoricamente, appunto, perché anche qui la disciplina dei licenziamenti, e perfino degli organici, è passata ai giudici del lavoro e ai Tar. Ma non è solo con il Parlamento e il Pd che Renzi deve fare i conti. Sulla riforma del lavoro, e soprattutto sull’articolo 18, la classe imprenditoriale italiana e la Confindustria hanno scelto il minimalismo: volano basso, bassissimo.
C’è un solo imprenditore tra quelli grandi a parlare chiaro e a mettere in atto comportamenti conseguenti: Sergio Marchionne, ad di Fiat. Gli industriali tedeschi manifestarono per la flessibilità, quelli francesi scesero in piazza contro le 35 ore. Da noi la marcia dei 40 mila quadri Fiat contro l’occupazione di Mirafiori risale al 1980: dieci anni dopo lo Statuto. Trentaquattro anni fa.
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Il vetusto articolo 18 e gli industriali minimalisti frenano Renzi, Pd a parte