La grande trasformazione del lavoro sta cambiando in profondità il modo di fare ricerca e il rapporto tra impresa e università. Efesto si è preso la scena e ha imposto le sue regole: non più meccanica ripetizione di movimenti e procedure, il lavoro oggi è creazione, intraprendenza, progettazione, adattabilità. Tutti i settori produttivi sono coinvolti da un mutamento concettuale senza precedenti. Ma la vera novità è che la grande trasformazione del lavoro ha invaso un campo finora ritenuto inespugnabile: quello della conoscenza.
Efesto e Atena, finalmente insieme: nasce il ricercatore industriale
Per millenni Atena ha respinto Efesto: la conoscenza non ha riconosciuto il ruolo della pratica, dell’ingegno e della manualità. Il lavoro è rimasto bloccato nel suo complesso di inferiorità: considerato mera fatica corporale e privo di contenuti intellettuali. Oggi invece Atena ed Efesto stanno insieme. Faccia a faccia. Ed è una novità travolgente. Il nido d’amore è stata l’industria. Il frutto di questa unione è il ricercatore industriale: il figlio di un inedito modo di concepire il lavoro e la ricerca, l’impresa e l’università.
Il ricercatore industriale: il nuovo che avanza…
Fino a qualche anno fa si sceglieva di fare ricerca industriale se non si era in grado di percorrere la carriera accademica. La ricerca in impresa era una seconda scelta, quasi mai una vocazione. Oggi in tutti i Paesi avanzati i numeri dei ricercatori industriali sono in crescita: in Germania e Francia sono lo 0.8% della forza lavoro totale delle aziende. In Danimarca l’1.3%, in Finlandia 1.2%. Ma servirà di più: entro il 2020 l’Europa chiede almeno il 3% degli occupati impegnati in attività di Ricerca e Innovazione e molti progetti vanno in questa direzione (ad esempio il Marie Curie Actions).…ma in Italia non avrà vita facile.
Che riconoscimento ha il ricercatore industriale in Italia? Per adesso solo lo 0.4% dei lavoratori fa ricerca in industria. E sembra già un miracolo. Le imprese spesso non trovano figure disponibili: eppure solo 1 su 4 dei PhD italiani riesce a proseguire nella carriera accademica; per gli altri 3 la ricerca industriale non è considerata una valida alternativa (si preferisce il pubblico impiego). Nel frattempo il mercato del lavoro non ha ancora strumenti e incentivi che riconoscano dovutamente le specificità del ricercatore in impresa.
L’università contra: un dottorato poco “industriale”
L’Italia paga un enorme ritardo culturale già nella fase di formazione dei ricercatori. Nel 1980, mentre già si sperimentavano i PhD industriali in Danimarca e Regno Unito, in Italia il dottorato nasceva con un decreto che non faceva nessun riferimento all’impresa né come percorso né come sbocco. Soltanto nel 2013 si introduce il “dottorato industriale”, che per adesso rimane un flopper i gravami burocratici e procedurali sulle imprese.
Le relazioni industriali sic tenuiter: pochi riconoscimenti e incentivi
Non va meglio nelle relazioni industriali: il contratto nazionale dei chimici-farmaceutici è l’unico che riconosce la figura del ricercatore industriale in Italia. Sgravi fiscali e credito di imposta sono previsti per chi assume ricercatori e avere una certa percentuale di PhD in una startup è uno dei criteri legali necessari per riconoscerne della sua innovatività. Ma non basterà finché i contratti continueranno a basarsi su categorie “statiche” come qualifica, mansione e rigida definizione degli orari. Inoltre, sul fronte formazione, gli apprendistati di ricerca sono ancora troppo pochi e nei CCNL ci sono scarni riferimenti (come conferma l’ Isfol).
L’industria pro: mai più monopoli del sapere
La realtà di oggi ci dice che l’industria ha eroso nel tempo il monopolio dell’università sulla conoscenza. E per crescere non può più fare a meno di ricercatori. Da Thomas Edison in poi il processo industriale è stato principalmente un amplificatore della ricerca universitaria. Ora diventa esso stesso strumento di espansione della conoscenza: più incisivo dell’università perché più legato all’esperienza e al mercato. Più rapido perché vicino alla società e alle sue esigenze. Il risultato è che chi fa ricerca in industria modifica la realtà molto più di chi fa ricerca in università. Con buona pace per la “Terza Missione”.
Identikit del ricercatore industriale
Ma chi è allora il ricercatore industriale? È una persona impegnata nella creazione e nell’applicazione di nuova conoscenza: progetta, sviluppa e applica modelli. È orientato al risultato, inserito in un team, ha un ruolo nell’organigramma aziendale. Sa comunicare, impostare problemi, gestire la contingenza. Normalmente è un PhD o un laureato tecnico-scientifico. È multitasking e pronto a svolgere diversi incarichi, lavori, compiti. Non ha orari di lavoro rigidi, pubblica poco, brevetta molto.
Buone pratiche e settori trainanti
Nonostante un clima avverso imprese innovative come Agusta Westland e Basf puntano su apprendistati di ricerca in cui l’impresa ha un ruolo formativo centrale. Mentre aziende come Bracco promuovono la ricerca industriale con il progetto “iRIS”. Il Miur ha recentemente incentivato la ricerca industriale finanziando il Progetto PhD Italents in collaborazione con Confindustria e Fondazione CRUI.
I settori italiani che più assumono ricercatori industriali sono chimico-farmaceutico, metalmeccanico ed energia. Ma ci sono anche imprese in settori dei servizi come sanità e istruzione (dove trovano spazio anche ricercatori umanistici).La strada è lunga, ma non ci sono alternative Puntare sulla ricerca industriale significa permette alle imprese di creare sviluppo e occupazione di alto profilo. Sfatati i miti del passato: la ricerca in industria è ricerca a tutti gli effetti. La trasformazione è irreversibile: persino Efesto e Atena stanno insieme. Ma la luna di miele in Italia, per adesso, è ancora rimandata.
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@Alfonso_Balsamo