Bilancio consuntivo di un rito vuoto e senza prospettive sindacali o il giorno dopo, dello sciopero generale proclamato da Cgil e Uil non parla più nessuno. Persino Stefano Fassina considera una caricatura malevola del premier l’accusa di dare voce a quelle proteste dentro il Partito democratico. Questo rapido oblio non dipende soltanto dalla dubbia riuscita delle astensioni dal lavoro, che sono state conteggiate in modo assai diverso dai sindacati promotori e dalle altre fonti, che almeno in un caso, quello che computa le assenze dei dipendenti pubblici, risulta attendibile e non è certo incoraggiante per chi puntava a un’agitazione generalizzata. La vera lacuna riguarda l’assenza di una prospettiva rivendicativa e negoziale, senza le quali un’iniziativa sindacale viene declassata automaticamente a momento di pura protesta, destinato a non lasciare tracce nella realtà e nella condizione dei lavoratori. L’obiettivo centrale della piattaforma di sciopero era la richiesta di non realizzare una riforma del lavoro che escludesse per i nuovi assunti il reintegro decretato dai giudici per i licenziamenti economici e per quelli disciplinari non manifestamente infondati. Proclamato prima che il Parlamento approvasse la delega all’esecutivo in questa materia, lo sciopero non aveva più senso, a meno che i sindacati promotori non fossero in grado di avanzare proposte che all’interno di quella delega esprimessero una maggiore rigidità di quella attesa dall’esecutivo. Le confederazioni promotrici, però, non sono state in grado di aggiornare la loro piattaforma, probabilmente per una valutazione differente del valore dello sciopero nella strategia complessiva, che per la Cgil subisce influenze antagonistiche mentre per la Uil è poco più di un atto dovuto. Con questa sorta di onanismo sindacale non si costruisce alcuna prospettiva.
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Lo sciopero generale delle idee