«Assai più che semplice titolare di un rapporto di lavoro, il prestatore di oggi e, soprattutto, di domani, diventa un collaboratore che opera all’interno di un “ciclo”. Si tratti di un progetto, di una missione, di un incarico, di una fase dell’attività produttiva o della sua vita, sempre più il percorso lavorativo sarà segnato da cicli» (M. Biagi, Competitività e risorse umane: modernizzare la regolazione dei rapporti di lavoro, in L. Montuschi, M. Tiraboschi, T. Treu (a cura di), Marco Biagi. Un giurista progettuale. Scritti scelti, Giuffrè Editore, Milano, 2003, pag. 151). Basterebbero queste parole di Marco Biagi per misurare la reale modernità del Jobs Act e, in particolare, la decisione di superare le collaborazioni a progetto.
L’impianto di attuazione della legge n. 183/2014 che si sta delineando ci ricorda una sorta di “Pompei” del lavoro, una modernità cristallizzata in un tempo glorioso che però non c’è più, quello così bene rappresentato dai “Tempi moderni” di Charlie Chaplin. Da allora (1936) è passato quasi un secolo, ma di questo non pare essersi accorto il Legislatore, che ancora richiama il lavoro subordinato come forma comune di rapporto di lavoro.
Eppure il lavoro oggi è altro: è lavorare a progetto o per progetti. Con caratteristiche sempre più evidenti come l’ubiquità (come ben descritto da F. Sperotti, ADAPTability/4 – Le “tre” trasformazioni del luogo di lavoro, tanto che non si parla più di workplaces, ma di places to work); la mancanza di orari (bene espressa dal motto, molto diffuso negli Stati Uniti, che recita: “ho 22 anni, lavoro 22 ore al giorno, guadagno 22 mila dollari”); la mancanza di necessità di forme di rappresentanza o di lotta “classiche” (così che il tweetbombing con hashtag che diventano virali sostituisce lo sciopero ed è perfino più efficace, perché il committente è un valore da preservare e il danneggiarlo nuocerebbe, per primo, proprio al lavoratore: sul punto cfr. anche F. Nespoli, In Italia come negli USA: la comunicazione dei freelance interroga il sindacato); ma anche la monocommittenza, su cui si tornerà in quanto elemento così rilevante da poter trasformare ogni “Star Job” in un “Mc Job”.
Non è più un semplice cambiamento dei modelli organizzativi del lavoro. Siamo di fronte a una nuova Grande Trasformazione del lavoro di cui il legislatore non tiene conto (vedi, per una periodizzazione, F. Seghezzi, Le grandi trasformazioni del lavoro, un tentativo di periodizzazione. Appunti per una ricerca, Working Paper ADAPT, 2 febbraio 2015, n. 169).
Questa incapacità del legislatore di leggere la realtà si accompagna poi ad un atteggiamento orientato alla scrittura di norme che, prima ancora di regolare ciò che è regolare, mirano innanzitutto a scongiurare possibili abusi.
Si crea in questo modo un corto circuito in cui hanno un ruolo anche le parti sociali, che a loro volta tendono a perpetuare dinamiche e logiche del passato. Le parti individuali, allora, quando non riescono ad essere “creative” e vicendevolmente fiduciose (in parte è avvenuto, ad esempio, nel settore del recupero crediti, per i collaboratori che svolgono attività out bound) sono costrette a vestire gli abiti troppo stretti di contratti costruiti per finalità del tutto differenti.
La soluzione è apparentemente semplice: la legge lasci spazi alla contrattazione collettiva, che, riempendoli, creerà norme che possano tenere conto delle specifiche esigenze di ogni diverso caso.
Una possibile complicazione sta nel fatto che, perché quanto suggerito funzioni, sarebbe necessario un “sindacato” adatto, o meglio, un centro di aggregazione di interessi adatto, se il termine “sindacato” incute troppo timore o non corrisponde – come spesso accade – alle mutate esigenze. Del resto esistono in rete forme di aggregazione molto più attive e utili (si veda l’esempio della Levo League, o della Freelancers Union, ma anche i Nomadi digitali italiani)…
E’ bene comunque salvaguardare il concetto di maggiore rappresentatività comparata, che ancora rientra nel novero delle buone e vecchie norme generali ed astratte adattabili al mutare dei tempi, e per questo certamente reimpiegabile anche per queste nuove forme di rappresentanza.
Ricorreva, il 17 febbraio scorso, l’anniversario del rogo di Giordano Bruno: parafrasando il suo pensiero, e senza timore di apparire blasfemi, potremmo dire che ogni lavoratore – o meglio, ogni nuova tipologia di lavoratore: l’operatore di call center, il free lance dei nuovi media, dell’editoria, lo startupper – è un sole da cui emanano esigenze, interessi e potenzialità peculiari, che creano nell’insieme un piccolo universo. Ogni universo, allora, è importante e speciale, ma non meno e non più degli altri. È fondamentale allora che il legislatore presti ad ognuno pari attenzione, perché possa continuare a “splendere” e perché il sistema risulti nel complesso armonizzato.
Il Ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha recentemente dichiarato (in una iniziativa di approfondimento tenutasi a Bologna il 14 febbraio 2015) che verrà preso in considerazione il “lavoro economicamente dipendente”: sarebbe già qualcosa, per chi non riusciva ad abituarsi all’idea che nel giro di pochi mesi sarebbe per sempre scomparsa l’intera “zona grigia” della parasubordinazione (principalmente nelle forme della collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, o della associazione in partecipazione con apporto di mero lavoro).
Senonché, ove si procedesse in questo senso risulterebbero determinanti i criteri o indici eventualmente stabiliti per statuire la dipendenza economica: le analogie che troviamo, con riferimento ai lavori autonomi (le c.d. partite iva, così definite con una strana metonimia che scambia il contratto con il relativo regime fiscale), nella Riforma Fornero, non farebbero ben sperare. E anche la dottrina (tra tutti A. Perulli, Un Jobs Act per il lavoro autonomo: verso una nuova disciplina della dipendenza economica?, in corso di pubblicazione in DRI) che ha tentato di tracciarli si scontra, ancora oggi, con un dato di realtà: come può richiedersi di definire economicamente dipendente il lavoratore che operi a favore di un committente dal quale derivi almeno una certa percentuale dell’ammontare complessivo dei compensi annui percepiti, se questo conteggio può essere eseguito soltanto ex post? E su quale base temporale si dovrebbe operare il conteggio? Non certo dall’inizio dell’anno in corso al momento in cui si accetta un lavoro; più probabilmente, considerando la media delle dichiarazioni dei redditi degli anni precedenti. Ancora: come può richiedersi che il prestatore debba comunicare per iscritto al committente la propria condizione di dipendenza economica al momento della stipula del contratto o nel corso dello svolgimento del rapporto, se sopravvenuta? Un obbligo di tal fatta, oltre a creare nuova burocrazia, con tutta probabilità indurrebbe il committente ad affidare lavoro, preferibilmente, a chi opera con partita iva da molti anni, ed è quindi meno a rischio di trovarsi nella condizione di dipendenza economica grazie a una più prolungata presenza sul mercato (con buona pace, ancora una volta, dei giovani autonomi). Se invece la dipendenza economica potesse rimanere una informazione riservata, da esplicitare solo di fronte ad abusi, questo creerebbe un circolo virtuoso nel mercato dove il committente sarà portato a comportarsi correttamente, essendoci sempre la possibilità teorica di avere affidato un lavoro ad un soggetto economicamente dipendente, che di tale tipologia possa reclamare le tutele… portandolo eventualmente anche alla scelta di assumere un subordinato (e qui paradossalmente ricongiungendosi con la volontà del legislatore che esplicitamente promuove la subordinazione, senza innescare quei processi di concorrenza sleale che finora hanno portato solo ad un avvitamento verso il basso).
Tornando al ragionamento principale, sarebbe essenziale che il legislatore:
- non cancellasse con un colpo di spugna tutti i contratti “parasubordinati”, per non creare un vuoto normativo in un mercato dove l’esigenza di regolare forme intermedie tra autonomia e subordinazione permane (pena il sommerso o la fuga delle committenti all’estero);
- regolasse adeguatamente, tenuto conto delle mutate esigenze del mercato, il lavoro autonomo indipendentemente dalla appartenenza o meno del lavoratore a albi o elenchi (in particolare a tutela dei nuovi iscritti, che sono per lo più in monocommittenza, spesso nemmeno da un singolo committente, ma da un professionista più anziano per cui conto operano);
- perseguisse la strada della definizione di “dipendenza economica” trascendendo il contratto stipulato dal lavoratore (parasubordinato o autonomo) ed individuando criteri che tengano conto della grande trasformazione che sta caratterizzando queste attività;
- rinviasse maggiormente alle parti sociali la possibilità di integrare la legge con pattuizioni di dettaglio che tengano conto delle peculiarità dei settori e delle professionalità i cui interessi perseguono: dovrebbe però trattarsi di “nuove” parti sociali, o comunque di parti sociali che si siano rinnovate nella struttura e nell’approccio alla rappresentanza.
Ciò premesso pare emergere, tuttavia e in conclusione, una esigenza al cambiamento complessiva, che riguardi i rappresentanti dei lavoratori, ma anche gli ordini professionali e i rappresentanti dei datori e dei piccoli imprenditori, nella loro funzione di “lobby” nel senso più alto del termine. Un cambiamento, peraltro, che passa da una strada che i lavoratori sentiti in questi anni nel corso dell’attività presso la Commissione di Certificazione dell’Università di Modena e Reggio Emilia già ci hanno indicato: è sufficiente percorrerla. Se poi questa strada voglia anche essere “certificata” (come ha recentemente suggerito G. Cazzola, Politically (in)correct una rubrica ADAPT sul lavoro – Jobs Act: quando le Commissioni Lavoro scambiano lucciole per lanterne), che lo sia: dovrebbe però trattarsi dell’ultimo passo di un più complesso cammino virtuoso.
Flavia Pasquini
Vice Presidente Commissione di Certificazione
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
ADAPT Senior Research Fellow
@PasquiniFlavia
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