Se si osa toccare il totem scatta il tabù, per questo i media hanno riportato con enfasi tutte le modifiche che il Governo ha apportato allo Statuto dei Lavoratori, la mitica legge n. 300 del 1970.
Così fa anche il Sindacato, per ragioni diverse, e per una difesa delle posizioni che ogni tanto sembra più la difesa del bidone che la capacità critica di guardarci dentro.
Così è stato per l’art. 18 (licenziamenti), così per l’art. 4 (controlli a distanza).
Personalmente ritengo sbagliato saltare a piè pari il confronto con le parti sociali, soprattutto quando queste si dicono disponibili al ragionamento, come ritengo altrettanto pericoloso l’arroccamento a difesa di norme superate dai fatti e dalla Storia, ma questo non può significare che il Paese, sotto il vento di un sedicente riformismo sfrenato debba pagare prezzi di cui si tireranno le somme quando sarà troppo tardi.
Facciamo riferimento alla troppa indifferenza politica e mediatica su provvedimenti – ancora emendabili – come gli schemi di decreto derivanti dal Jobs Act n. 177 e n. 179: le politiche attive e gli ammortizzatori sociali.
Una attenta quanto complicata lettura del combinato disposto di queste norme suscita negli addetti ai lavori qualche preoccupazione.
Le disposizioni sui licenziamenti facevano supporre, e prospettavano, un robusto intervento di politiche attive del lavoro, per realizzare quel circolo virtuoso di flexsecurity che avrebbe consentito alla persona che perde il lavoro di essere coperta economicamente da un forte e moderno ammortizzatore sociale, nel mentre veniva presa in carico da un sistema di politiche attive che la traghettasse verso un’altra occupazione.
Questo uso spregiudicato dei condizionali si è rivelato quanto mai opportuno!
La realtà dei fatti è che per realizzare tutto questo ci voleva una precondizione essenziale: le risorse.
Le risorse non ci sono, quindi di fatto le politiche attive sono la cenerentola della riforma del mercato del lavoro: non ci sono i denari sufficienti, da questo l’idea (storicamente perdente) di ricentralizzare tutto (a Costituzione invariata!), nell’illusione che una Agenzia nazionale possa surrogare a quello che la maggior parte delle Regioni non è riuscita a fare, resuscitando i mai rimpianti uffici di collocamento, che non sono attrezzati ad esercitare i ruoli che verranno loro richiesti.
È giusto essere scettici in Italia: troppo spesso la montagna partorisce il topolino, in questo caso il rischio è che partorisca un ennesimo carrozzone pubblico, di cui francamente non si sentiva il bisogno.
Altro sarebbe stata una attenta valutazione delle buone prassi regionali, ove esistono (Puglia? Lombardia?), e attraverso queste veicolare un sistema concorrenziale (di mercato) tra pubblico e privato, premiante a risultato.
Certo, il ruolo dell’ANPAL sarebbe rimasto: di indirizzo, coordinamento e controllo, per le situazioni che partono da zero, con una architettura a geometria variabile che non avrebbe umiliato le Regioni virtuose, né il “pubblico” ove questo è competitor del privato sulla qualità del servizio.
E i tempi della presa in carico da parte degli uffici pubblici per l’impiego?
Sei mesi di disoccupazione – e di relativo utilizzo della NASPI! – prima di far partire le politiche attive, teorizzando la possibilità che le persone in sei mesi si ricollochino da sole.
Uno studio dell’Agenzia regionale per il lavoro della Lombardia mostra chiaramente che l’attivazione dei servizi fa la differenza: dopo 12 mesi di disoccupazione si è ricollocato circa il 60% delle persone che hanno utilizzato una Dote (futuro Assegno), meno del 30% di coloro che invece non l’hanno utilizzata.
Certo, se non si irrobustisce la ripresa economica parlare di ricollocazioni, specialmente in certe zone del Paese, è parlare di fantascienza, ma noi siamo convinti che attivando tempestivamente il meccanismo della ricerca di un nuovo lavoro, supportato da professionisti, si evita il cedimento psicologico del lavoratore, l’abbandonarsi alla rassegnazione, magari si colgono delle opportunità e sicuramente, se va a buon fine, si risparmiano le risorse della disoccupazione (NASPI).
L’esperienza di Garanzia Giovani dovrebbe aver insegnato che bloccare le risorse non porta alcun vantaggio, anzi il passare del tempo peggiora il livello di profilazione delle persone impattate.
Una ulteriore obiezione è che, in un regime di mercato, al “pubblico” rimarrebbe la parte di lavoratori più difficile da ricollocare, e i privati sceglierebbero chi accettare e chi no, tra la “merce” più pregiata.
Mi stupisco che non sia possibile, invece della centralizzazione tout court, e della profilazione affidata ai nuovi centri per l’impiego, costruire procedure che vincolino alla qualità della prestazione, che premino le ricollocazioni più complicate e difficili, che disincentivino i comportamenti dei “furbi”, così come avviene per Dote Unica in Lombardia, dove la proporzione della presa in carico tra prima, seconda e terza fascia è di uno a due a quattro: cioè per ogni lavoratore in fascia di basso aiuto corrispondono 2 lavoratori in fascia media e 4 in fascia alta, e questo in quantità uguali sia per operatori pubblici che privati!
E in Lombardia, contrariamente al pensiero dominante, tutti fanno tutto: dalla presa in carico alla profilazione, in un regime di concorrenza basato su un rating noto a tutti, che consente alle persone libera scelta, e che “paga” a risultato raggiunto, in proporzione alla difficoltà della ricollocazione.
Ammortizzatori sociali ridotti nella durata, una NASPI che rapidamente scende economicamente, un sistema centralizzato farraginoso, la difficoltà di mettere a regime i centri pubblici per l’impiego, i pochi quattrini a disposizione, un panorama economico incerto, dovrebbero suggerire al legislatore di lasciare inalterati almeno i sistemi regionali che hanno dimostrato di funzionare, se proprio non si vuole provare ad assumerne le prassi migliori.
Ma la tentazione del “pubblico è bello” continua ad avere un fascino incomprensibile in questo nostro complicato Paese!
Serena Bontempelli
Segretaria Confederale UIL Milano Lombardia
Pdf
Politiche attive: un'occasione persa?