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Bollettino ADAPT 11 aprile 2022, n. 14
È di qualche settimana fa l’avvio dell’esame della proposta di legge Gribaudo ed altri “Modifiche al decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, e altre disposizioni concernenti la disciplina del contratto di apprendistato” (2902) in XI Commissione Lavoro. La proposta di legge è stata presentata il 22 febbraio 2021 su iniziativa dei deputati del Partito Democratico con l’obiettivo che l’apprendistato «diventi più agile e conveniente per i datori di lavoro» di modo da diventare «adeguatamente competitivo con il tirocinio» che, come confermano le ultime rilevazioni statistiche (si veda T. Galeotto, I tirocini extracurriculari: criticità e prospettive, in Bollettino ADAPT 13 dicembre 2021, n. 44), è in continua diffusione ma da tempo è accusato di mascherare lavoro produttivo sottopagato (si veda M. Tiraboschi, Come mettere il carro davanti ai buoi. Brevi note sui tirocini dopo la legge di bilancio per il 2022, Bollettino ADAPT 31 gennaio 2022, n. 4).
Per il perseguimento di tali scopi, che come si vedrà rischiano di cadere in una eterogenesi dei fini, la proposta prevede (i) una liberalizzazione del potere datoriale (e dello stesso apprendista), che potrà esercitare la sua facoltà di sciogliere il rapporto contrattuale non solo al termine del periodo di apprendistato ma anche durante, in apposite parentesi temporali; (ii) la possibilità di ridurre la retribuzione dell’apprendista fino a un massimo del 60% rispetto a quella dell’inquadramento di destinazione; (iii) la costituzione di una piattaforma dell’apprendistato presso ANPAL che consentirebbe una digitalizzazione del procedimento di attivazione del contratto, tramite iscrizione obbligatoria per l’azienda, e della gestione del piano formativo, e che conterrebbe anche una lista delle imprese “accreditate” con l’indicazione del numero di contratti di apprendistato stipulati e del relativo tasso di conferma; (iv) un irrobustimento delle c.d. clausole di stabilizzazione che imporrebbero alle aziende con più di quindici dipendenti (prima cinquanta) l’obbligo a confermare in servizio almeno il 33 per cento (prima il venti) degli apprendisti; (v) l’accesso a corsi di alta formazione per lo svolgimento delle ore di formazione di base e trasversale; (vi) un nuovo (e sperimentale) sgravio contributivo del 100 per cento.
Non è la prima volta che la materia dell’apprendistato è oggetto di attenzioni riformatrici. Da quanto introdotto nella sua versione moderna, ormai quasi vent’anni fa dalla Legge Biagi del 2003, l’istituto è stato oggetto di decine di interventi legislativi. Eppure, per quanto meritevole per l’attenzione dedicata al sempre attuale (e critico) tema dell’occupazionale giovanile, la proposta di legge sembra riproporre, sia nella sua logica di insieme che nelle singole disposizioni, i vecchi vizi dell’apprendistato italiano che, come è noto, non è mai decollato e non ha mai raggiunto gli standard comunitari (si veda M. Colombo, Di cosa parliamo quando parliamo d’apprendistato? Bollettino ADAPT 8 gennaio 2019, n. 1)
Innanzitutto, la creazione di una piattaforma dell’apprendistato presso ANPAL pare andare nella direzione contraria di quella sburocratizzazione dello strumento che tanto la letteratura quanto le stesse dichiarazioni contenute nella relazione illustrativa invocano, talvolta forse cadendo in luoghi comuni, se si ricorda che gli esperti tedeschi ci ricordano come la burocrazia sia uno dei segreti del successo dell’apprendistato duale in Germania (si veda M. Weiss, Formazione professionale in Germania: il sistema duale, in DRI, 2014, 1, pp. 284-299) Tanto più non convince la natura meramente formale dell’accreditamento alla piattaforma, non essendo richiesto alcun requisito per accertare la capacità formativa dell’azienda. La proposta di un accentramento – formale – delle procedure di attivazione dei percorsi di apprendistato, rischia poi di andare in direzione contraria a quella di un decentramento – sostanziale – verso i territori, quale orizzonte privilegiato di costruzione e progettazione dell’apprendistato come sistema in grado di dare risposta ai fabbisogni locali e creare stabili legami tra sistemi formativi e mondo del lavoro. È una burocrazia “buona” quella che richiede il pur lento e spesso faticoso confronto tra i soggetti che, a livello locale, possono far “vivere” – e crescere – l’apprendistato: imprese, istituzioni formativi, parti sociali, enti locali.
Non dimeno, anche la scelta di alzare le clausole di stabilizzazione, pur nel merito di affrontare il problema del tasso di conferma in calo del 12,4% nel 2021, (come rilevato dal XIX rapporto sull’apprendistato in Italia, dal titolo “Lo sviluppo dell’occupazione e della formazione in apprendistato”, qui p. 33), pare invasivo rispetto a una competenza che il decreto legislativo 2015, n. 81 riconosce alla contrattazione collettiva la quale, pur avendone facoltà, non è quasi mai intervenuto per alzare le quote del 20 per cento fissate dalla norma di legge.
Anche la decisione di insistere lungo la strada degli sgravi contributivi non pare vincente, come ha confermato un recente studio dell’INAPP (I. Brunetti, V. Ferri, A. Ricci, Contratto di apprendistato e investimenti: una valutazione su dati employer-employees, INAPP WP n. 84, 2022) che ha rilevato come gli incentivi fiscali esercitino un effetto debolmente positivo sulla quota di nuove assunzioni per i giovani under 30.
Il disegno complessivo è quello, quindi, di “liberalizzare” il recesso dal contratto di apprendistato prima del termine prestabilito, introducendo però un sistema economico incentivante di sgravi progressivi, in base alla durata del contratto stresso, e irrigidendo le clausole di conferma – che pure vengono poi stabilite dalla contrattazione collettiva – con l’obiettivo di scoraggiare il recesso al termine del periodo di apprendistato. La proposta di legge pensa quindi l’apprendistato a partire dal tentativo di trovare il giusto equilibrio tra quello che sembra essere un inevitabile scontro tra i vantaggi per i lavoratori e quelli per le imprese, andando però a scoraggiare il ricorso a questa fattispecie dato che rende assai più costoso il contratto per chi non conferma l’apprendista al termine del percorso. L’abbassamento della soglia dimensionale per l’applicazione delle quote di conferma rischia inoltre di limitare la crescita dell’istituto là dove pure dovrebbe (e potrebbe) affermarsi, e cioè tra le piccole e soprattutto medie imprese italiane.
Più in generale, la proposta di legge pare troppo schiacciata sull’obiettivo di sconfiggere la concorrenza dei tirocini extracurricolari. Il rischio è quello di un’eterogenesi dei fini, con l’indebolimento di uno strumento contrattuale che, pur con tutti i suoi limiti, offre un livello minimo di garanzie per la transizione scuola-lavoro: in questa direzione rischierebbe di andare l’estensione della facoltà di recesso ad nutum del datore di lavoro, proprio quando la dottrina iniziava a sollevare dubbi sulla legittimità dell’istituto, così come la possibilità di retribuire l’apprendistato con una percentualizzazione fino al 60%, quando la maggior parte dei contratti collettivi nazionali del lavoro si attesta su percentuali minime dell’80%.
L’obiettivo di “competere” con i tirocini extracurriculari rischia di travolgere, in particolare, l’apprendistato duale. Concretamente, inserire la possibilità di un recesso libero “al termine di un terzo del periodo di apprendistato, di due terzi del periodo di apprendistato o al termine del periodo di apprendistato”, come previsto dall’art. 1 della proposta di legge, trasformerebbe il senso stesso di quegli apprendistati finalizzati al conseguimento di un titolo di studi, come appunto l’apprendistato di primo e terzo livello. Un’impresa potrebbe assumere un giovane apprendista in quarta superiore, ma a differenza di quanto oggi accade senza l’esplicito obiettivo di portarlo ad acquisire il diploma al termine del quinto anno, ma anche solamente per dieci mesi di lavoro (molto) e formazione (poca). Crolla così l’idea stessa di un apprendistato nel quale l’impresa si riconosce soggetto formativo a pieno titolo e partecipa attivamente alla costruzione del percorso e accompagna il giovane fino al titolo, lavorando per favorire una continua circolarità tra ciò che apprende a scuola (o all’università) e ciò che apprende sul luogo di lavoro. Una circolarità superflua, saltando l’obiettivo per il quale il percorso viene attivato. Secondo la già richiamata eterogenesi dei fini, l’apprendistato duale è così ridotto – al massimo – a tirocinio “lungo”, separato dal suo senso proprio e trasformato in un periodo di lavoro mentre si è contestualmente iscritti presso un’istituzione formativa.
Ma non solo. Anche l’obiettivo di coinvolgere gli apprendisti di secondo livello in corsi universitari, ITS o comunque di alta formazione, oltre che certificare il fallimento dei corsi di formazione di base e trasversale regionali ex art. 44, comma 2, pare essere un infruttuoso ritorno al passato. Quando, si pensi al tempo dell’alfabetizzazione dei lavoratori, la formazione (si pensi alle 150 ore, ma anche allo stesso apprendistato come previsto dalla legge 1955 o ad alcune sue evoluzioni nel corso degli anni Ottanta) aveva per oggetto materie e argomenti estranei al lavoro svolto in azienda e al fabbisogno formativo delle imprese. Il tutto a discapito del metodo didattico e pedagogico dell’apprendistato, dove formazione e lavoro dovrebbero integrarsi reciprocamente e a danno del modello di apprendistato duale su cui da decenni letteratura internazionale istituzioni comunitarie e best practices nazionali (si veda da ultimo G. Impellizzieri, Apprendistato duale: ancora la lezione di Bolzano, Bollettino ADAPT, 7 febbraio 2022, n. 7) ci consigliano di investire. Tuttalpiù, e in questo caso la modifica legislativa sarebbe da salutare positivamente, il coinvolgimento delle istituzioni formative è auspicabile nella misura in cui utile per l’attivazione di moduli formativi coerenti con i settori produttivi e in cui sono impegnati gli apprendisti: ma per raggiungere questa finalità, sarebbe opportuno coinvolgere non solo le Regioni ma soprattutto le parti sociali.
Non è il tempo, oggi, di una nuova riforma dell’istituto, che porterebbe solamente incertezza tra gli operatori che hanno assistito, nell’arco degli ultimi vent’anni, a tre grandi riforme dell’istituto e a tanti – troppi – interventi correttivi. È il tempo invece del consolidamento, della dimostrazione di come l’apprendistato può essere – e in tante esperienze è – non un mero contratto incentivato, unica prospettiva a partire dalla quale la sua “rigidità” può essere vista come un limite e quindi combattuta grazie ad incentivi economici e ad un più semplice recesso dal contratto, ma un vero e proprio sistema grazie al quale costruire, a livello territoriale, strutturati raccordi tra sistemi formativi, parti sociali, imprese, enti locali, per anticipare fabbisogni, progettare percorsi formativi ibridi e innovativi, costruire le professionalità e i mestieri. Per raggiungere quest’obiettivo servirebbe invece, a livello centrale, promuovere e accompagnare sperimentazioni locali, grazie a bandi che abilitino – in un’ottica sussidiaria e partecipativa – scuole, centri di formazione professionale, ITS, Università e aziende a costruire il “proprio” apprendistato, facendo della personalizzazione e dell’aderenza ai concreti bisogni emergenti dal basso la cifra di un sistema per l’integrazione tra formazione e non lavoro, e non “solo” un contratto (più o meno incentivato).
ADAPT Senior Research Fellow
@colombo_mat
Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Siena
Presidente ADAPT
Associazione per gli studi sulle relazioni industriali e di lavoro
Coordinatore scientifico ADAPT