A proposito di stabilità e precarietà del lavoro: tutelare le persone non i contratti*

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I pochi mesi che ci separano dal termine della legislatura e dall’avvio di una nuova campagna elettorale saranno in buona parte spesi per valutare gli effetti del Jobs Act di Matteo Renzi. Da una parte i promotori di questa riforma, convinti di una “svolta buona” nella direzione della stabilità del lavoro. Dall’altra parte gli oppositori che accusano il Governo di aver fallito l’obiettivo come dimostrerebbe il drastico calo delle assunzioni a tempo indeterminato, una volta esauriti i bonus occupazionali, e il boom dei rapporti temporanei e precari.

 

Entrambe le posizioni sono probabilmente sbagliate, almeno se si vuole tenere conto di come è cambiato il lavoro negli ultimi decenni e di quelli che sono i bisogni reali delle persone rispetto al bisogno di un reddito ma anche di una identità attraverso il lavoro. È infatti la contrapposizione tra posto fisso e lavoro precario che non funziona più perché risponde a logiche del passato e a una organizzazione del lavoro tipica del Novecento industriale. Là dove esistono valutazioni accurate dei dati a nostra disposizione è stato bene documentato come la stabilità di un reddito o di una identità professionale non risponda necessariamente al tipo di contratto con cui si è assunti. Perché la stabilità o la precarietà sono prima di tutto condizioni mentali, che come tali variano da persona a persona, là dove invece è dimostrato che buona parte dei contratti di lavoro dipendente a tempo indeterminato non durano più di uno o due anni.

 

Per affrontare il nodo della precarietà del lavoro il quadro delle regole è stato più volte riformato in tutto il mondo. In Italia non si contano più gli interventi legislativi che si sono susseguiti ad un ritmo quasi annuale. Come una tela di Penelope, un fare e disfare che non ha mai consentito di misurare la bontà o meno delle nuove regole. Da un lato questo è un segnale dell’eterna tentazione del legislatore di rispondere ai problemi occupazionali del nostro Paese mediante l’introduzione o l’eliminazione di articoli e norme. Dall’altro lato segnala una positiva volontà di svecchiare un impianto formalistico che, se non dà risposte ai bisogni delle persone, neppure risponde alle richieste del sistema produttivo di poter gestire adeguatamente il cambiamento del lavoro. Purtroppo questo secondo aspetto guida solo in parte il legislatore, e il primo aspetto risulta preponderante accompagnando spesso le riforme del diritto del lavoro con la promessa di nuova occupazione.

 

Questo però non significa che non vi sia alcun legame tra normativa sul lavoro e funzionamento del mercato, dell’incontro tra domanda e offerta, dell’efficienza delle imprese e delle tutele dei lavoratori. E proprio per questo motivo è fondamentale oggi riflettere sulle sfide che il diritto del lavoro si trova ad affrontare di fronte alla nuova grande trasformazione del lavoro. Sarebbero decine le tematiche da discutere: dalla scomparsa di nette distinzioni tra lavoratori subordinati e lavoratori autonomi alla tematica dei controlli e della privacy all’interno di ambienti lavorativi iper-connessi, dalle tutele per le malattie croniche e derivanti dai cambiamenti demografici alla gestione dei rapidi e complessi cambiamenti nelle mansioni. Ma a dover individuare una chiave di lettura che possa aprire poi a tutti questi dibattiti quella più interessante potrebbe essere relativa proprio alla posizione del lavoratore nel mercato del lavoro che cambia.

 

Dire infatti che il diritto del lavoro di oggi è ancora costruito su un modello socio-economico del passato vuol dire che si fonda sulla fabbrica fordista, possibilmente medio grande, nella quale i lavoratori iniziavano e terminavano la loro carriera. Questo tipo di sistema produttivo aveva come necessità la presenza di contratti di lavoro che consentissero al datore di lavoro la possibilità di esercitare il ruolo di controllo, attraverso ordini, direttive ed all’interno di una struttura gerarchica. Allo stesso tempo il lavoratore aveva bisogno di un contratto che fosse garanzia di un salario costante mese dopo mese, che fosse stabile rispetto alle fluttuazioni dei mercati in cui l’impresa operava, e che consentisse nel tempo scatti crescenti fino alla pensione. Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato è lo strumento che garantiva tutto questo e altro ancora, come ad esempio la riduzione dei costi di transazione determinati dall’elevato turnover dei lavoratori. Sulla subordinazione e sulla durata del contratto di lavoro si sono costruite tutte le strutture sociali che hanno dominato gli ultimi settant’anni (e che ancora in parte dominano ancora oggi): il welfare state, un certo modello di relazioni industriali, il sistema educativo, gli ammortizzatori sociali, il sistema previdenziale.

 

Con la crisi di questo modello, i cui primi segnali sono arrivati già negli anni Settanta del secolo scorso, nasce una retorica che ancora accompagna il dibattito sul lavoro odierno, quella tra stabilità e precarietà. Individuato infatti nel contratto subordinato a tempo indeterminato l’elemento centrale e irrinunciabile delle relazioni di lavoro, tutto ciò che non rispondeva più a questo modello è stato identificato negativamente con un termine preso in prestito dal mondo della psicologia, la precarietà. E questo non senza alcune buone motivazioni ovviamente. Infatti spesso, e ancora oggi, si è tentato di rispondere alla crisi del modello fordista andando ad incidere sull’elemento lavoro e non su altri che avrebbero richiesto un ripensamento completo del vecchio sistema e la costruzione di uno nuovo.

 

Oggi la situazione è, per certi versi, ancora quella degli anni Ottanta, in cui si cercava di rispondere alla crisi di un paradigma senza spostare lo sguardo verso qualcosa di nuovo ma agendo con il cacciavite per tentare di raddrizzare ciò che del vecchio non funzionava più. Un primo passaggio per uscire da questa fase di stallo in cui la dimensione giuslavoristica si trova insieme a tante altre discipline potrebbe essere quello di provare a guardare oltre. E questo significa superare la dialettica stabilità-precarietà come connessa alla dimensione contrattuale del lavoro. In un mercato fluido, caratterizzato da costanti transizioni occupazionali e da carriere discontinue non è detto che una persona con un contratto a tempo indeterminato si senta stabile, né che un collaboratore si senta precario. E fare questo spostamento di pensiero significa rimodellare interamente il sistema di tutele che ha caratterizzato il vecchio modello. Pensiamo in particolare alla tutela contro il licenziamento e al mondo degli ammortizzatori sociali. Era chiaro che l’idea della grande azienda, con modelli produttivi più o meno costanti garantiti da cicli di vita dei prodotti simili alla durata delle carriere e tassi di mortalità delle imprese bassi portassero a vedere nel mantenimento del posto di lavoro una tutela fondamentale, sia mediante le norme sul licenziamento sia mediante quelle sulla cassa integrazione e affini. Possiamo riscontrare oggi da molti elementi come la situazione sia profondamente cambiata, con mercati che nascono e muoiono in poco tempo, sistemi produttivi che si evolvono rapidamente e una competitività spesso spietata. Questo non significa che il licenziamento acquisti un valore inferiore rispetto al passato, ma che la mobilità tra un posto di lavoro e un altro, o tra diverse fasi della vita, è molto più frequente. E sembra difficile poter tornare indietro. Ripensare le tutele significa immaginare un diritto del lavoro che sia meno legato al posto di lavoro ma alla tutela della persona stessa, che sia lavoratore, che sia disoccupato o inattivo. E questo può passare ad esempio dal ruolo delle competenze, della loro formazione, della loro certificazione e della loro portabilità durante le carriere, per fare un esempio.

 

Per essere effettive e utili le nuove tutele del lavoro devono ancorarsi saldamente nella realtà senza ideologie e inutili astrazioni. Le continue trasformazioni del lavoro ci dicono che le politiche attive e di ricollocazione sono le tutele di nuova generazione perché stemperano l’alternativa tra sentirsi stabili e precari. Ed è qui che dovremo valutare nei prossimi mesi la bontà del Jobs Act e delle altre riforme del lavoro, come tassello di un moderno welfare della persona e non del contratto con cui lavora. Invero, già il fatto stesso che la cultura italiana del lavoro non esca dalle categorie del Novecento industriale pare un sintomo, confermato dai risultati di garanzia giovani e della prima sperimentazione delle politiche di ricollocazione, che allo stato queste tutele di nuova generazione, per quanto presenti sulla carta, non stanno ancora funzionando.

 

Francesco Seghezzi

Responsabile comunicazione e relazioni esterne di Adapt

Direttore ADAPT University Press

@francescoseghezz

 

Michele Tiraboschi 
Coordinatore scientifico ADAPT
@Michele_ADAPT

 

*pubblicato anche su Avvenire, 28 settembre 2017

 

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A proposito di stabilità e precarietà del lavoro: tutelare le persone non i contratti*
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