Il lavoro minorile è argomento di primaria importanza anche in un benestante Paese occidentale come è l’Italia (nonostante la crisi). Certo, la dimensione e le caratteristiche dell’emergenza sono assolutamente diverse rispetto alle drammatiche situazioni, innanzitutto per la dignità della persona prima che per gli abusi giuridici, che si osservano nei Paesi economicamente più deboli.
Sono essenzialmente due i connotati assunti da questo problema nel nostro Paese.
Il primo è quello tradizionale: i giovani che escono dai percorsi di istruzione e formazione secondaria superiore (più raramente inferiore, ma accade), i c.d. early school leavers, senza avere assolto l’obbligo e che alimentano necessariamente il mercato del lavoro nero, non potendo essere in ogni caso assunti “in chiaro”. Alcuni, raggiunta la maggiore età, riescono ad ottenere anche un contratto regolare; molti altri entrano in un vero e proprio percorso professionale informale dal quale non riescono (e talvolta non vogliono) uscire.
La dimensione del problema è tutt’altro che secondaria: circa 7.800 allievi abbandonano prematuramente i banchi di scuola, ovvero il 17,6% degli alunni, a fronte di una media europea del 12,7% (dati Istat).
Non è migliore la situazione di chi non lavora neanche in nero: abbandono e dispersione scolastica sono anticamera di quell’inattività giovanile che ora si usa fotografare con la statistica sui NEET, che censisce il numero di giovani che non studiano e non lavorano. È questa ora la principale criticità del mercato del lavoro italiano, per la quale sono stati stanziati 1,5 miliardi di fondi europei.
La crescente e doverosa attenzione verso il dramma dell’inattività giovanile permette di comprendere che il problema italiano in materia di lavoro minorile è esattamente il contrario di come tradizionalmente inteso: provare a portare un numero sempre più alto di adolescenti a lavorare.
L’esperienza dei Paesi germanici, che possono vantare i migliori tassi di occupazione/disoccupazione/attività giovanile durante la crisi economica, permette di individuare una correlazione positiva tra la diffusione di effettive esperienze di alternanza formazione-lavoro e il posizionamento nel mercato del lavoro dei giovani fino a venticinque anni.
Apprendistato e stages formativi, indipendentemente dalla qualificazione giuridica, sono esperienze di lavoro governate dall’istituzione formativa. Sono quindi, allo stesso tempo, sia vere esperienze di lavoro che vere esperienze di scuola, formazione professionale o università. D’altra parte non ci può essere formazione reale, anche teorica, senza contestualizzazione pratica e vera e cosciente esperienza nella realtà senza una riflessione teorica. Per contrastare l’allarmante disoccupazione giovanile italiana (698 mila disoccupati under 25, tasso di disoccupazione al 42,9% nel mese settembre 2014, ultimo dato noto) sarebbe cruciale la costruzione di un efficiente sistema di apprendistato per la qualifica e per il diploma professione o, laddove non possibile, di esperienze di alternanza mediante tirocini curriculari “lunghi” (almeno due mesi durante il calendario scolastico/universitario) coerenti con il percorso di studio frequentato.
La tipologia di apprendistato necessaria, appunto quella c.d. di primo livello, è una possibilità solo teorica, nonostante in vigore dal 2003 e riformata nel 2011: non si conoscono più di un centinaio di casi in tutto il Paese (e comunque è impossibile nelle tante Regioni che non hanno costruito, in oltre dieci anni dalla Legge Moratti, un proprio sistema di istruzione e formazione professionale triennale).
Certamente più successo stanno avendo i tentativi di alternanza, censiti in continua crescita dall’INDIRE, l’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca educativa del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca che pubblica una indagine annuale sull’alternanza. Invero, si tratta ancora, in larga maggioranza, di esperienze di tirocinio piuttosto brevi (inferiori a quindici giorni) e non necessariamente connesse al percorso di studi frequentato dallo studente. Sono comunque crescenti anche i progetti di alternanza solida.
Paradossalmente, se l’Italia vuole contrastare efficacemente il problema del (non) lavoro dei giovani deve quindi incoraggiare l’inserimento di esperienze lavorative nei percorsi formativi a partire anche dai cosiddetti “minori” (14 anni), ovvero il primo anno di istruzione secondaria superiore, lo stesso durante il quale si registra la grande maggioranza di abbandoni e lo stesso che non è svolgibile con un contratto di apprendistato (l’articolo 3 del competente Testo Unico permette la stipulazione del contratto a partire da 15 anni) e durante il quale è assai raro osservare esperienze di tirocinio curriculare.
Presidente di ADAPT
@EMassagli