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Bollettino ADAPT 2 maggio 2022, n. 17
Nel 1966, Luca Borgomeo pubblicava una prima rassegna di giurisprudenza sul contratto collettivo di lavoro “post-corporativo”, prendendo in considerazione le vicende giuridiche di un ventennio (1944-1964). L’Autore, infatti, indagava le posizioni del diritto vivente che aveva dovuto fare i conti con due fattori: da un lato, la caduta dell’ordinamento corporativo; dall’altro, l’inattuazione dell’art. 39 Cost. In apertura di questa indagine, Borgomeo osservava che «pochi istituti e norme giuridiche non sono influenzate da elementi sociali, economici e politici; certamente il contratto collettivo non rientra in tale categoria» (L. Borgomeo, Il contratto collettivo di lavoro. Rassegna di giurisprudenza (1944-1964), Giuffrè, 1966, p. 3).
Queste brevi considerazioni introduttive conservano ancora una certa attualità e allo stesso tempo permettono anche di cogliere alcuni spunti di riflessione rispetto alle recenti vicende che stanno interessando la regolazione del mercato del lavoro, in particolare quelle relative alla tutela dei livelli retributivi. Infatti, da un lato è tornato in auge – soprattutto dopo la mobilitazione del legislatore euro-unitario – il tema del salario minimo legale; dall’altro, non sono passate inosservate tutte quelle sentenze che, con apprezzabili argomentazioni, hanno stabilito che il contratto collettivo che disciplina il trattamento economico nel settore della vigilanza privata non armata e dei servizi fiduciari non è in grado di riconoscere ai lavoratori una retribuzione rispettosa dei parametri costituzionali (art. 36 Cost.): ci riferiamo all’ormai celebre CCNL ASSIV, le cui vicende sono note anche a causa del mancato rinnovo, in un periodo in cui il caro vita pesa sulle buste paga dei lavoratori. Questa particolare vicenda, a parere di alcuni, svelerebbe il sentore per cui l’autorità salariale per eccellenza (cioè il contratto collettivo, definito come tale da F. Liso, Autonomia collettiva e occupazione, in DLRI, 1998, n. 78, p. 223) sia entrata definitivamente in crisi, a tal punto da smarrire anche la sua principale funzione (la definizione di un salario sufficiente, dignitoso e proporzionato alla qualità e alla quantità del lavoro). Un’ulteriore conferma, dunque, che l’intervento del legislatore sarebbe divenuto, oramai, improcrastinabile.
Orbene, lungi dal mettere in discussione l’operato dei giudici, i quali sono (e devono essere) soggetti solo alla legge (art. 101 Cost.), le osservazioni che seguono, sulla scia dell’insegnamento di Borgomeo, sono finalizzate non solo a mettere in luce i «principali orientamenti giurisprudenziali in materia»; piuttosto, ciò che ci interessa è leggere attraverso il dato giurisprudenziale i «problemi di viva attualità per il mondo del lavoro relativi al contratto collettivo di lavoro che, come espressione dell’autonomia dei gruppi sociali e come fulcro delle relazioni industriali nell’ambito di una società pluralistica, interessa oltre i giuristi anche gli operatori economici e sociali» (L. Borgomeo, cit., p. 5). In altri termini, ciò che vogliamo provare ad affermare è che un CCNL negoziato da organizzazioni sindacali indubbiamente rappresentative (come espressamente riconosce Trib. Torino 9 agosto 2019, n. 1128), per quanto possa prevedere dei livelli salariali alquanto discutibili, serba in sé delle ragioni che sono direttamente collegate al contesto economico in cui lo stesso è chiamato ad operare. Un contesto che nell’economia del ragionamento tenuto dai giudici, per quanto possa essere stato preso in considerazione, non sempre è riuscito ad incidere sulla decisione assunta dall’autorità giudiziaria. Procediamo, dunque, ad una breve disamina delle principali pronunce.
Di recente, il Tribunale di Milano, con sentenza n. 673 del 22 marzo 2022, ha stabilito che la retribuzione sancita dall’art. 23 del CCNL Vigilanza Servizi Fiduciari (ASSIV) non è conforme ai parametri costituzionali di cui all’art. 36 Cost., essendo anche inferiore al tasso Istat indicativo della soglia di povertà. La vicenda trae origine dalla contestazione avanzata da un lavoratore circa la sufficienza e la proporzionalità della retribuzione riconosciutagli dal datore di lavoro. Da diversi anni, il dipendente era impiegato nell’ambito di un appalto avente ad oggetto la sorveglianza dell’ingresso agli immobili, attività di reception e controllo degli accessi (e dunque, inquadrato al livello D del predetto CCNL) e in virtù delle procedure di cambio appalto, aveva instaurato un rapporto di lavoro con diversi appaltatori. L’ultima società subentrata alla gestione del servizio, nell’esercizio della propria libertà sindacale, aveva scelto di applicare il CCNL Vigilanza Servizi Fiduciari (ASSIV), un contratto che, come noto, oltre ad essere pertinente al settore, è sottoscritto da una coalizione di sindacati più che rappresentativa.
Tuttavia, i precedenti appaltatori avevano applicato al rapporto di lavoro instaurato con il medesimo dipendente diversi CCNL. In virtù dei diversi cambi di appalto, il lavoratore ha visto diminuire il proprio livello salariale a causa del diverso CCNL che individuava l’appaltatore di turno. Infatti, la mansione di addetto alla sorveglianza degli accessi negli immobili è disciplinata, sia sotto il profilo economico che normativo, anche da altri CCNL; tra i tanti, il CCNL Multiservizi-Fise. Sennonché, tra quest’ultimo e il CCNL ASSIV intercorre una differenza salariale di non poco conto (pari al 25% circa, come rileva il giudice), che si è riflessa sull’ammontare del salario percepito dal lavoratore nel tempo. In virtù di questa differenza, il Tribunale ha ritenuto che l’ultimo appaltatore, applicando il CCNL ASSIV, non abbia rispettato il parametro della proporzionalità poiché tale contratto stabilisce dei livelli salariali inferiori rispetto a quelli previsti da altri CCNL che disciplinano la medesima mansione e che erano stati applicati dai precedenti appaltatori.
L’orientamento appena citato, in realtà, non può dirsi una novità. Con analoghe argomentazioni, infatti, precedentemente anche il Tribunale di Torino, con la sentenza n. 1128 del 9 agosto 2019, riconosceva che ai dipendenti inquadrati al livello D del CCNL ASSIV non veniva riconosciuta una retribuzione conforme ai criteri dell’art. 36 Cost. Orbene, ciò che interesse ai fini di questa riflessione, non è tanto l’aspetto connesso all’esercizio della libertà sindacale del datore di lavoro e/o al potere del giudice di “superare” le tariffe stabilite dal CCNL (aspetti questi, che pure meriterebbero una puntuale analisi). Ciò che ci interessa, invece, è comprendere la ragione per la quale le medesime organizzazioni sindacali (Filcams-CGIL, Fisascat-Cisl e Uiltucs-Uil) che firmano il CCNL Multiservizi-Fise (in questo caso, è solo la UilTrasporti a fare la differenza), nell’ambito del quale è disciplinata la mansione dell’addetto alla sorveglianza degli accessi, abbiano deciso di stipulare un altro CCNL che contempla la medesima figura professionale ma con livelli salariali inferiori.
Sotto questo profilo, il testo della sentenza torinese (9 agosto 2019, n. 1128) ci restituisce un dettaglio importante. Il presidente della delegazione trattante per conto di ASSIV, l’associazione datoriale che rappresenta le società che si occupano della gestione degli immobili e dei servizi fiduciari, spiegava al giudice che «la decisione di normare appositamente il settore del portierato ovvero vigilanza non armata nacque dalla constatazione che il settore si era ampliato notevolmente a partire dal 2006» inducendo «le imprese fornitrici di questi servizi a cercare contratti collettivi più vantaggiosi per essere competitive, rivolgendosi anche a forme di collaborazioni diverse dal lavoro dipendente come il socio d’opera. In tale contesto i proprietari delle aziende di vigilanza costituirono a latere altre società per offrire i servizi di portierato applicando il C.C.N.L. Multiservizi o il C.C.N.L. Portieri di stabili con inquadramento A2 (che era più conveniente)» e anche «il C.C.N.L. UNCI ed altri allo scopo di parametrare le retribuzioni fornite ai loro dipendenti alle tariffe più basse che ricevevano dai committenti». Infatti, il sindacalista d’impresa osservava che «le aziende fornitrici di questi servizi non hanno margini di negoziazione con le imprese committenti, adducendo come spiegazione il fatto che «il servizio è fornito in termini di numero di persone e su tariffa oraria, insomma in termini di ora-uomo su mansioni non elastiche».
A detta del sindacalista, il meccanismo al ribasso che caratterizzava la trattativa di carattere commerciale era favorito anche «dall’assenza di un contratto specifico» del settore. Ed è per questa ragione che si decise di pensare ad un apposito contratto: «col passare del tempo – precisa il rappresentante di ASSIV – anche il CCNL Multiservizi e il CCNL Portieri era divenuti non più competitivi, con conseguente proliferazione di altri contratti come ad esempio quello sottoscritto da vigilanza Sinalv-CISAL e una associazione imprenditoriale palermitana».
Da queste dichiarazioni – fondamentali in un processo del lavoro che ha ad oggetto l’individuazione del CCNL ai fini della risoluzione della controversia e in questa prospettiva si riscopre tutta l’importanza di una norma come l’art. 425 c.p.c. (Richiesta di informazioni e osservazioni alle associazioni sindacali) – emerge come nella prospettiva dei soggetti sindacali stipulanti (rappresentativi) vi sia stato l’obiettivo di “imbrigliare” con un apposito CCNL una fetta del mercato dei servizi, onde evitare che questo, messo sotto pressione dalle dinamiche commerciali, finisse “prigioniero” della logica della contrattazione pirata (ovvero, di quei CCNL stipulati da organizzazioni – non sempre – sindacali scarsamente o non rappresentative, con contenuti economici e normativi fortemente al ribasso) o peggio ancora, di meccanismi elusivi della normativa lavoristica (come l’utilizzo improprio di tipologie contrattuali). Tuttavia, questa attività di regolazione non poteva introdursi nella realtà economica in modo netto e senza una logica di gradazione della regolazione, pena la non “appetibilità” del CCNL da parte delle imprese di settore, che avrebbero continuato a ricorrere ai ben noti e descritti meccanismi elusivi della norma lavoristica.
In questa prospettiva, le organizzazioni sindacali hanno scelto di negoziare un contratto che prendesse in considerazione, ratione temporis, il livello dei prezzi commerciali del servizio per poi aumentare, man mano e ad ogni rinnovo, il livello delle retribuzioni, in modo tale da incidere anche sull’aumento della tariffa commerciale erogata dalle impese committenti. In tale quadro, quindi, il CCNL ASSIV giustifica la sua esistenza nella logica dei c.d. contratti di emersione. Un fenomeno economico e giuridico non sconosciuto al nostro ordinamento. Sul finire degli anni Novanta, infatti, con l’obiettivo di contrastare il lavoro sommerso o “grigio”, in particolare nel Sud dell’Italia, il legislatore ha introdotto i c.d. contratti di riallineamento (o accordi di gradualità), cioé patti volti a far riemergere e a condurre gradualmente le imprese ad una condizione di regolarità retributiva e contributiva, in cambio del riconoscimento di vantaggi fiscali (L. Baldini, M. Tiraboschi, I contratti di gradualità: dalle prime esperienze applicative alla Legge 28 novembre 1996 n. 608, in DRI, 1997, n. 1, p. 131 e ss.; G. Gentile, Il lavoro sommerso, 2010, p. 56; G. Piglialarmi, Il ruolo del consulente del lavoro, Adapt University Press, 2020, p. 191). Questi accordi prevedevano un aumento graduale della retribuzione, fino a giungere a quella prevista dai CCNL sottoscritti dalle organizzazioni sindacali più rappresentative.
Come detto, fermo restando l’assoluto rispetto per le decisioni assunte dai giudici, queste brevi note che abbiamo qui riportato ci consentono senz’altro di guardare al di là del guado, cioè a quegli “elementi sociali, economici e politici” che influenzano il diritto delle relazioni industriali. È solo in quest’ottica che possiamo comprendere, essenzialmente, che le dinamiche per la determinazione del salario non è solo una questione di “dignità” o una mera operazione aritmetica. Proprio per questa ragione, riteniamo di escludere che il salario possa essere un aspetto del rapporto di lavoro che si può governare con una legge. Occorrono invece strumenti duttili, in grado di catturare le specificità del caso. E per quanto il contratto collettivo sia stato oggetto di “abusi” – a partire dal fenomeno patologico della contrattazione pirata che ha portato nel nostro ordinamento a conteggiare più di 900 CCNL – ciò non giustifica una sua messa in soffitta, almeno sul versante della determinazione del salario. Poiché esso rimane lo strumento a normazione specifica per eccellenza. In altri termini, Abusus non tollit usum (l’abuso non giustifica il divieto dell’uso), fermo restando che occorrerà continuare ad esplorare nuove strade per capire come evitare che l’uso sfoci nell’abuso e quindi nella lesione dei diritti delle imprese e dei lavoratori. Una legge che fissi in modo perentorio il salario minimo orario non è certamente la strada giusta.
A ricordarcelo sono quelle pronunce giudiziarie coraggiose, che, diversamente da quelle precedentemente menzionate, hanno riconosciuto la legittimità, ai sensi dell’art. 36 Cost., delle retribuzioni stabilite dal CCNL ASSIV poiché questa «trova fondamento nella concreta vicinanza alla materia delle associazioni stipulanti e, quindi, nella loro capacità di interpretare le esigenze reali, secondo le contingenze del settore, potendo così stimare con adeguata garanzia di tutela e di bilanciamento, gli interessi in gioco». Infatti, non è «il giudice» che «dispone della concreta vicinanza alla materia» ma sono «le associazioni stipulanti che hanno individuato i diversi livelli retributivi come rispondenti alle specifiche esigenze del settore»; se in «una determinata area contrattuale ben può presentarsi una segmentazione contrattuale, in astratto, trasversalmente applicabile a differenti settori merceologici», allorché «ricorra una specifica contrattazione del settore che, come nel caso di specie, normalmente tiene conto delle caratteristiche e delle dimensioni delle imprese in esso operanti, oltreché delle possibilità degli sbocchi occupazionali, nell’attuale sistema di contrattazione appare corretto attribuire specifica rilevanza alle concrete determinazioni dei soggetti stipulanti, in merito all’area contrattuale in concreto da essi individuata» (App. Torino, 15 febbraio 2022, n. 671).
Giovanni Piglialarmi
Ricercatore presso il Dipartimento di Economia “M. Biagi”
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia