Quante volte ci è capitato di rispondere alle mail di lavoro dal nostro smartphone? E quante di lavorare dal nostro notebook o tablet mentre si era in viaggio o ancora in pausa?
Senza saperlo abbiamo adottato il BYOD (Bring Your Own Device), un approccio al lavoro che risulta essere sempre più richiesto dalle aziende in tutto il mondo (vedi su questo anche Smart working e sistemi di talent management: quali opportunità per la Direzione HR?)
Letteralmente la traduzione dell’acronimo BYOD per esteso è “porta il tuo dispositivo personale”. Con tale concetto si indica la richiesta di una data azienda ai suoi dipendenti di lavorare utilizzando le strumentazioni tecnologiche personali (smartphone, tablet, personal computer ecc…). Sarebbe, quindi, una policy aziendale con la quale permettere a dipendenti, partner e altri di usare un dispositivo client o mobile scelto e comprato personalmente per svolgere il proprio lavoro accedendo ai dati e software dell’azienda.
È un pratica aziendale non nuova ma che nel tempo si è evoluta. In passato le aziende consentivano ai dipendenti di usare i propri dispositivi sul posto di lavoro per scopi aziendali. Oggi, invece, l’uso del dispositivo è consentito non solo sul luogo di lavoro ma ovunque rendendo così il lavoratore mobile e flessibile.
Statisticamente il fenomeno è particolarmente esteso negli Stati Uniti e soprattutto nei Paesi in via di sviluppo quali India, Brasile, Russia e Cina ove il BYOD è diffuso tra il 75% delle aziende. In Europa e nei Paesi sviluppati, invece, non supera il 45%.
In Italia, fino ad ora il BYOD è stato applicato solo nel 6% delle aziende in quanto considerato poco conforme con le norme di sicurezza imposte dalle aziende. Secondo un’indagine condotta da Nextvalue, in collaborazione con CIONET Italia (Enterprise Mobility & BYOD in Italia. What’s next, 2013), su un campione di 160 CIO di aziende grandi e medio-grandi in Italia, nel 43% delle aziende non è previsto un programma BYOD, e negli altri casi si verificano situazioni miste: nel 51% dei casi il BYOD coinvolge meno di un quarto dei collaboratori, e non è la policy principale adottata dall’azienda. Solo nel 4% dei casi il BYOD rappresenta una scelta preponderante dell’azienda, coinvolgendo più della metà dei dipendenti, e solo nel 2% dei casi è una vera e propria policy obbligatoria.
Insomma, il BYOD in Italia è un fenomeno ancora marginale, eppure in un contesto dove siamo costantemente connessi questa pratica risulta essere la naturale evoluzione del lavoro. Secondo Gartner (una delle maggiori società di ricerca e analisi nel campo ICT-Information and Communication Technology) dal 2016 la metà dei datori di lavoro richiederà ai propri dipendenti di usare i propri dispositivi per scopi aziendali, fino ad arrivare ad essere l’anno successivo, nel 2017, una policy imposta. Secondo le previsioni della stessa ricerca il 38% delle aziende interromperà la fornitura di dispositivi sul posto di lavoro al personale nei prossimi due anni perché non si riterrà più conveniente fornire strumenti informatici mobili di proprietà aziendale (Gartner, Bring Your Own Device: The Facts and the Future, 2013).
Nell’ultimo periodo anche in Italia si inizia a parlare dei benefici del BYOD che per le sue caratteristiche è collegato, insieme al lavoro agile, (sul lavoro agile si rimanda F. Sperotti, Lavoro agile: alcuni ostacoli da superare, ADAPTability/8) allo smart working, per la cui regolamentazione si sta pensando ad una legge ad hoc (v. Marco Minghetti, Una legge per lo Smart Working: conversazione con Alessia Mosca e Michele Tiraboschi), differenziandolo dall’attuale e poco diffuso telelavoro (v. L. Serrani, Nella prassi le ragioni del mancato decollo del telelavoro, ADAPTability/5).
Sembra che a richiedere di poter utilizzare i propri strumenti e dispositivi informatici sono in primis i lavoratori: una recente ricerca condotta dal Politecnico di Milano rivela che oltre il 60% dei dipendenti ritiene di essere in possesso di strumenti migliori e più performanti rispetto a quelli forniti in dotazione dall’azienda. Inoltre, l’aspetto motivazionale del dipendente che usa uno strumento di suo gradimento, perfettamente conosciuto e di abituale utilizzo, determina un aumento della produttività in termini di risparmio di ore mediamente lavorate per l’esecuzione delle attività.
Secondo una ricerca condotta da Cisco (CISCO IBSG, L’impatto finanziario del BYOD. I vantaggi del BYOD per le aziende multinazionali, 2013) in diversi Paesi (Stati Uniti, Regno Unito, Germania, India, Cina e Brasile) il risparmio medio stimato è di almeno 37 minuti a settimana per dipendente, il 36% dichiara di aver risparmiato almeno due ore a settimana (altrimenti impiegate per gli spostamenti casa-ufficio) ed in generale le nuove metodologie di lavoro o pratiche lavorative innovative, grazie ai propri dispositivi hanno consentito un risparmio di tempo al 53% dei dipendenti.
Inoltre un altro vantaggio per l’azienda è sicuramente il risparmio nel non acquistare i dispositivi ma solo nel contribuire nella maggior parte dei casi ai costi di utilizzo mediante un rimborso spese regolato. Il lavoratore, dal canto suo, ha la possibilità di gestire il proprio lavoro decidendo nella maggior parte dei casi i tempi.
Va detto, però, che il BYOD negli ultimi anni si è diffuso in maniera sregolata poiché, da un lato, non sempre supportato da adeguate procedure aziendali che disciplinano l’utilizzo corretto e dall’altro lato per la evidente conflittualità con alcuni aspetti del diritto del lavoro.
Sul punto, infatti, le principali problematicità del BYOD risiedono anzitutto negli aspetti della sicurezza informativa, della privacy e di ogni esposizione al rischio di perdita o di sottrazione di dati aziendali. Rischi ai quali sono esposti anche i lavoratori, potenzialmente soggetti a un’ingerenza nella propria sfera privata e personale a causa di possibili controlli a distanza. Rispetto al diritto del lavoro si potrebbero porre dubbi sulla compatibilità del BYOD con gli articoli 4 e 8 dello Statuto dei Lavoratori (Legge n. 300/1970), rubricati rispettivamente impianti audiovisivie divieto di indagine sulle opinioni.
Per risolvere tali problematiche bisogna prima rispondere ad un interrogativo non del tutto risolto e che riguarda la necessità o meno del consenso del dipendente, nonché proprietario del dispositivo, all’uso del BYOD ed alla conseguente installazione del software che consente di proteggere i dati aziendali.
Tale approvazione, d’altra parte, potrebbe non essere sufficiente e richiedere necessariamente il consenso delle rappresentanze sindacali, o in loro mancanza della Direzione Territoriale del Lavoro così come previsto dall’art. 4 commi 1 e 2, Legge n. 300/1970, seppur in presenza delle esigenze «organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro» che permettono l’installazione di sistemi da cui potrebbe derivare un controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. Pertanto, anche in presenza di tali esigenze, l’utilizzo di tali apparecchiature che, potenzialmente, possono consentire la geo localizzazione del lavoratore, oltre a forme di controllo della sua attività, potrebbe richiedere il previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali ovvero previa autorizzazione della Direzione Territoriale del Lavoro.
Inoltre, il datore di lavoro, anche involontariamente, trattando i dati aziendali presenti sul dispositivo personale del dipendente, potrebbe venire a conoscenza dei dati privati violando così l’art. 8 della Legge n. 300/1970 che fa «divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale». Senza dubbio, anche in questo caso, sembra d’obbligo fornire ai dipendenti un’idonea informativa sulla privacy, unitamente a compiute indicazioni sulla natura dei dati trattati e sulle caratteristiche del sistema e dei controlli che potranno essere effettuati.
Un’ulteriore problematica di non poco conto riguarda il rapporto tra la policy di BYOD e la disciplina dell’orario di lavoro. Molte aziende hanno già fatto i conti con tale problematica ed hanno adottato soluzioni che risultano essere “controcorrente” rispetto al nuovo concetto di lavoro fortemente influenzato dalle moderne tecnologie. Sul punto si segnalano le politiche restrittive della Deutsche Telekom, della Bayern, della Daimler e della Volkswagen che hanno imposto il divieto all’utilizzo del sistema di posta elettronica oltre l’orario di lavoro, spegnendo nell’ultimo caso i server aziendali mezz’ora prima della fine del turno e accendendoli mezz’ora dopo l’apertura. Sulla stessa linea ma con una politica diversa la BMW e la Henkel hanno istituito il “diritto alla non reperibilità” fuori dall’orario di lavoro. In Brasile, invece, tali questioni sono state regolamentate per legge prevedendo che le mail e le telefonate dopo il lavoro danno diritto al riconoscimento del lavoro straordinario. Da ultimo, resta ancora aperta, la causa che 200 agenti di polizia hanno intentato contro la municipalità di Chicago, pretendendo che vengano riconosciute come lavoro straordinario le ore impiegate a controllare le mail ricevute sul loro device.
Senza dubbio il BYOD è una pratica lecita e vantaggiosa per le aziende che però deve essere affiancata da policy esaustive, che ne definiscano i termini di utilizzo e, ovviando alle problematiche connesse, permettano una corretta implementazione di detto sistema. È necessario, quindi, un approccio professionale e innovativo per affrontare le sfide del BYOD ed in generale dell’enterprise mobile senza lasciarsi trascinare dall’entusiasmo o anchilosarsi su posizioni tradizionali.
Il fenomeno del BYOD è pertanto una sfida che sottende ad un nuovo modo di lavorare e di approcciarsi al lavoro. Significa reinventare il concetto di ufficio, partendo dal presupposto che si possa lavorare in maniera efficiente in qualsiasi altro luogo.
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@IsaOddo
* Il presente articolo è pubblicato anche in Il Sole 24 Ore, Le Aziende InVisibili (Il blog di Marco Minghetti) del 30 maggio 2014.