Bollettino ADAPT 7 gennaio 2025, n. 1
Gli adattamenti organizzativi sul posto di lavoro sono considerati fondamentali per promuovere l’inclusione delle persone con disabilità. Tuttavia, ciò rappresenta un’area ancora poco indagata nelle relazioni di lavoro. A far luce su questi aspetti interviene una recente ricerca pubblicata sul British Journal of Industrial Relations ad opera di J. E. Booth e D. Lup ed intitolata Enabling Inclusion: An Analysis of Positive and Negative Outcomes of Discretionary Work Arrangements for Employees With Disabilities. Nella sua portata innovativa, lo studio indaga la relazione tra disabilità e lavoro a partire proprio da una delle aree di intervento considerate fondamentali per promuovere l’inclusione delle persone con disabilità, ovvero gli accordi di lavoro flessibile in ordine alle modalità, ai luoghi e ai tempi di svolgimento della prestazione lavorativa.
Ma quali effetti hanno realmente questi adattamenti organizzativi sul benessere delle persone con disabilità? Nonostante sia ben noto che i lavoratori con disabilità affrontino esperienze professionali molto più difficili rispetto ai colleghi senza disabilità, ancora poco si conosce sugli impatti delle diverse soluzioni organizzative adottate nei luoghi di lavoro.
Lo studio così condotto non solo ha l’effetto di stimolare ulteriori riflessioni accademiche, ma si presenta quale importante riferimento per offrire spunti concreti e (in)formare datori di lavoro e organizzazioni sindacali, interessati a creare ambienti di lavoro inclusivi per i dipendenti con disabilità.
In via preliminare è utile richiamare innanzitutto ad alcune definizioni che gli studiosi utilizzano e che consentono di comprendere al meglio gli spunti della ricerca e rappresentare così (auspicabilmente) un terreno fertile ed un termine di paragone per future riflessioni anche nel contesto italiano. La prima definizione riguarda quello che gli studiosi chiamano Discretionary Work Arrangements. Secondo lo studio, si tratta di quelle pratiche che consentono ai lavoratori di esercitare un certo grado di controllo – e dunque di flessibilità – sul proprio lavoro, sul modo in cui lo svolgono e sui tempi e luoghi della prestazione lavorativa. La seconda precisazione si riferisce invece alla nozione di Disability. Lo stato di disabilità è definito seguendo la metodologia GALI (Global Activity Limitation Indicator) utilizzata nelle statistiche ufficiali a livello europeo e che identifica le persone con disabilità con i soggetti che negli ultimi sei mesi hanno avuto una condizione di salute che ha limitato le loro attività, catturando così gli aspetti correlati sia alle condizioni mediche che alle potenziali barriere lavorative.
Dal punto di vista metodologico, la ricerca si basa sull’analisi comparata degli impatti che le diverse tipologie di flessibilità sul lavoro hanno tra le persone con e senza disabilità. In particolare, gli studiosi analizzano le risposte estratte a partire dal European Working Conditions Survey del 2015 e fornite dal campione casuale di 21.118 lavoratori dipendenti di età compresa tra i 15 e i 65 anni. Gli Autori confrontano così i riscontri empirici con le evidenze emergenti dalla letteratura.
A tal proposito, i ricercatori distinguono tre tipologie di adattamenti organizzativi che riguardano rispettivamente il “come”, il “quando” e il “dove” della prestazione lavorativa. Ciascuna pratica è quindi valutata in base agli effetti che produce in termini di soddisfazione lavorativa, equità di trattamento, riconoscimento, motivazione, impegno e in base agli esiti indesiderati dell’esperienza di lavoro, come lo stress lavoro-correlato e l’interferenza sull’equilibrio vita-lavoro.
Flessibilità nel “come”: l’organizzazione delle modalità di lavoro e la retribuzione di risultato
La prima forma di flessibilità riguarda l’organizzazione delle modalità di lavoro, ovvero il grado in cui i dipendenti hanno voce in capitolo nelle decisioni direttamente correlate al modo in cui gestiscono gli incarichi, alla velocità e all’ordine delle attività da svolgere.
Dallo studio della letteratura emerge come tale adattamento aumenti la soddisfazione lavorativa, influenzi positivamente la fiducia reciproca, il riconoscimento sociale, la motivazione e il coinvolgimento dei lavoratori, consentendo altresì di diminuire i danni da stress e di gestire al meglio l’equilibrio tra vita privata e vita lavorativa.
La ricerca empirica convalida i risultati, ma precisa come, quando vi è uno scarso controllo nella gestione delle modalità di lavoro, i dipendenti con disabilità percepiscono minor soddisfazione rispetto ai propri colleghi. Invero, all’aumentare della possibilità di pianificare liberamente il proprio lavoro, la soddisfazione aumenta in modo simile per tutti i lavoratori, riducendo così il divario tra le esperienze dei due gruppi. Ad alti livelli di discrezionalità, i lavoratori con disabilità provano dunque meno stress, il che migliora il loro benessere avvicinandolo a quello dei dipendenti senza disabilità.
Strettamente correlata alla prima, la seconda forma di flessibilità riguarda il lavoro per obiettivi. A tal proposito, la formula organizzativa considerata è la retribuzione di risultato, intesa non solo quale incentivo, ma come un vero e proprio mezzo capace di rinegoziare le norme che regolano l’organizzazione del lavoro.
Secondo le fonti scientifiche esistenti, la retribuzione – per così dire – incentivante è legata positivamente alla percezione di una maggiore equità retributiva, riduce lo stress lavorativo e, al contempo, non ha un impatto negativo sul work-life balance.
In linea con gli studi precedenti, anche la ricerca empirica consolida l’idea di una positiva correlazione tra la retribuzione di risultato e le molteplici esperienze lavorative. Tuttavia, sottolineano gli Autori, la retribuzione di risultato potrebbe essere dannosa, anziché benefica, per l’equilibrio tra vita e lavoro.
Dagli esiti dell’indagine non emergono particolari differenze tra le esperienze professionali delle persone con o senza disabilità. Pertanto, lo stato di disabilità non sembra essere una variabile in grado di aggravare (o migliorare) questi effetti. Sul punto, gli Autori sono però concordi nel suggerire prove qualitative più approfondite per valutare le diverse possibilità di negoziazione della retribuzione di risultato e aiutare così i dipendenti con disabilità a stabilire criteri più equi di valutazione delle performance, al fine di connettere i loro sforzi con la retribuzione che ricevono.
Flessibilità nel “quando”: la discrezionalità nella programmazione e il part-time
Gli adattamenti organizzativi che incidono sul tempo di lavoro si riferiscono tanto alla discrezionalità nella programmazione, quanto alla riduzione dell’orario di lavoro. Nel primo caso, si tratta della possibilità di variare gli orari di lavoro, inclusa una certa libertà di movimento per gli impegni personali imprevisti. Nel secondo caso, ci si riferisce al part-time, che offre ai lavoratori una riduzione della durata della giornata lavorativa o della settimana lavorativa.
Quanto alla discrezionalità nella programmazione, la letteratura individua una positiva associazione con la soddisfazione lavorativa, con la percezione di un giusto compenso e con il riconoscimento da parte delle organizzazioni del proprio impegno professionale. Poter pianificare il tempo di lavoro permette infatti di gestire lo stress lavorativo, aumentare il benessere e migliorare l’equilibrio vita-lavoro, con una correlazione dunque negativa con gli esiti indesiderati del lavoro. Le prove empiriche confermano le fonti precedenti e mostrano una relazione positiva con gli aspetti dell’esperienza lavorativa, dalla soddisfazione alla motivazione, per tutti i lavoratori indipendentemente dalla condizione di disabilità.
A ben vedere, quando vi sono però scarse possibilità di gestire liberamente il tempo di lavoro, le persone con disabilità soffrono di uno svantaggio maggiore rispetto ai propri colleghi. Ad alti livelli di libertà nella programmazione si hanno invece esperienze più simili tra i lavoratori con e senza disabilità, in termini sia di maggiore soddisfazione lavorativa, che di equità di trattamento e di riconoscimento sociale.
Al contrario, i contributi non sono del tutto pacifici nell’individuare l’entità dell’impatto del part-time. La riduzione dell’orario di lavoro ha infatti un effetto ambiguo sulla soddisfazione lavorativa e sul riconoscimento sociale ed è correlata negativamente alla percezione di un trattamento equo. Diversamente, il part-time ha un impatto positivo sulla motivazione, in quanto la possibilità di lavorare anche poche ore rappresenta per alcuni un’opportunità di crescita delle competenze professionali.
Considerando l’interazione tra lo stato di disabilità e il part-time, la riduzione di orario di lavoro mitiga gli effetti negativi sulla motivazione e sul riconoscimento e al contempo non aggrava lo stress lavorativo e l’equilibrio vita-lavoro. In altre parole, l’analisi mostra come parte dell’impatto negativo che il lavoro part-time ha per i dipendenti risulta in qualche modo alleviato per le persone con disabilità.
Flessibilità nel “dove”: il lavoro da casa
Un ultimo adattamento organizzativo riguarda il luogo di lavoro, ed in particolare il lavoro da casa. Definito homeworking dagli stessi studiosi, il telelavoro o il lavoro agile – potrebbe essere così tradotto nel contesto italiano – si riferisce alla possibilità di lavorare da luoghi non correlati all’ambiente di lavoro, spesso da casa.
Sulla base delle teorie già sviluppate, lavorare da casa è associato alla perdita di capitale sociale e a minori possibilità di creare o mantenere i legami con i propri colleghi. In tal senso, il lavoro da casa influisce negativamente sulla motivazione, sul riconoscimento, sul coinvolgimento e sull’equilibrio tra vita privata e lavorativa.
Le conseguenze negative del lavoro da casa sono addirittura esacerbate per i dipendenti con disabilità. Lo studio suggerisce infatti una penalizzazione aggiuntiva del lavoro da casa per le persone con disabilità, che soffrono così di una scarsa soddisfazione lavorativa e di un minor riconoscimento professionale. Gli unici effetti che non sono amplificati per i lavoratori con disabilità sono quelli che riguardano lo stress lavorativo e l’equilibrio vita-lavoro.
Conclusioni
Volendo sintetizzare gli esiti, è chiaro come le possibilità di gestire flessibilmente le modalità e il tempo di lavoro siano gli adattamenti organizzativi con l’impatto più positivo per le persone con disabilità. Queste pratiche non solo riducono il divario nelle esperienze positive, ma avvantaggiano in modo unico le persone con disabilità anche nella gestione dei loro livelli di stress e delle interferenze tra lavoro e vita privata.
Gli studiosi richiamano tuttavia ad un’attenzione: gli impatti dei diversi adattamenti organizzativi rispetto all’orario di lavoro devono essere distinti. Laddove la discrezionalità nella programmazione ha un vantaggio maggiore per i dipendenti con disabilità, l’impatto del part-time sembra infatti essere diverso.
Mentre i dipendenti part-time senza disabilità si sentono meno motivati rispetto a quelli con un impiego a tempo pieno, per i dipendenti con disabilità questi svantaggi non sono presenti. Effettivamente, in assenza di altre possibilità, il part-time consente alle persone con disabilità l’accesso al lavoro e, quindi, alla possibilità di sviluppare risorse e competenze. Fattori, questi, che portano i dipendenti con disabilità ad essere più motivati a lavorare.
Un’ultima considerazione riguarda il lavoro da casa: le persone con disabilità che lavorano da remoto si sentono ancora più isolate e meno connesse all’organizzazione rispetto ai propri colleghi. Un dato, questo, tutt’altro che banale se si considera come il lavoro da casa sia tuttora invocato nel dibattito interno come una soluzione organizzativa efficace soprattutto per le persone con disabilità. Data l’età dei dati (il sondaggio è del 2015) non è però possibile sviluppare ulteriori – seppur di estremo interesse – riflessioni in ordine allo smart-working del contesto post-pandemico, in cui la pratica è certamente più diffusa.
Ciononostante, con le dovute attenzioni, come l’offerta di esperienze migliori in generale, il lavoro da casa, assieme al lavoro part-time, potrebbero rappresentare soluzioni con cui le organizzazioni si impegnano a ridurre il divario occupazionale per le persone con disabilità.
Uno studio dunque unico che dà voce alle persone con disabilità e che fa luce su una moltitudine di collegamenti, sia positivi che negativi, tra i diversi adattamenti organizzativi e le esperienze lavorative. Uno studio che offre nuove intuizioni sul ruolo che i datori di lavoro, le associazioni datoriali, i lavoratori e le organizzazioni sindacali possono svolgere nel ridurre il divario di esperienza, di benessere e di salute sui luoghi di lavoro.
Anna Marchiotti
PhD Candidate ADAPT – Università di Siena