Il governo, con il suo emendamento al Jobs Act, ha messo nero su bianco l’eliminazione dell’articolo 18. Ed è riuscito a farlo senza doverlo nemmeno nominare: «Il reintegro sul luogo di lavoro non c’è più, non è previsto in nessun caso» commenta Sergio Cofferati, europarlamentare del Pd che dodici anni fa, da leader della Cgil, per difendere quel principio portò in piazza due milioni di persone. «E’ il guaio è che di questa sparizione non tutti sembrano essersene accorti».
Fatto fuori nel silenzio, dice lei. Ci spiega meglio questo passaggio?
«Basta leggere con attenzione il punto dove l’emendamento introduce il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio. Non si prevede esplicitamente il mantenimento del reintegro sul posto di lavoro, anzi si usa la stessa formula che compare in alcune delle proposte che intendono sostituire il reintegro con il risarcimento monetario. Di fatto si elimina quella parte riguardante l’articolo 18 che era sopravvissuto alla riforma Fornero».
Il ministro Poletti dice che sulla questione si deciderà al momento dei decreti attuativi.
«La formula usata è esplicita, il reintegro è escluso. Tanto più che si tratta di un diritto indipendente dall’anzianità lavorativa: il reintegro c’è o non c’è. Qui non c’è, nemmeno nei casi di licenziamento discriminatorio».
Questo spiegherebbe la piena soddisfazione del senatore Sacconi, che da sempre chiede l’eliminazione totale dell’articolo 18?
«Diciamo che Sacconi ha letto il testo meglio di Poletti».
Ma se è vero che ormai il reintegro riguarda pochissimi casi e la stragrande maggioranza dei lavoratori ne é esclusa, perché accanirsi nella sua difesa?
«Perché la discriminazione non si misura con il metro della quantità, e perché ci deve essere una norma che garantisce dignità alla persona che lavora. Una legge che non tutela il lavoratore allontanato per motivi discriminatori è un inaccettabile passo indietro. Pensare di compensare una ingiustizia dichiarata e riconosciuta con dei soldi è indice di un impressionante arretramento culturale».
Dodici anni fa lei con questo ragionamento portò in piazza due milioni di persone, perché oggi questo tema non scalda più gli animi?
«Perché i valori sono più laschi».
La sinistra ne é responsabile?
«Sul lavoro si tende ormai a ragionare solo in termini di giusta mercede, di compenso adatto a garantire un certo livello di vita. E anche la sinistra ha perso divi sta il ruolo sociale del lavoro, il suo peso nella realizzazione dell’individuo e nella consapevolezza della sua dignità».
Dodici anni fa avrebbe mai pensato che quello che non è riuscito a fare un governo di destra lo sta facendo un governo di sinistra?
«C’è una pressione durissima da parte della Ue sul governo italiano affinchè faccia azioni che non sono di riforma, ma diventano simboliche- in negativo rispetto al mondo del lavoro».
La Camusso parla dell’articolo 18 come dello scalpo preteso dai falchi della Ue, anche lei la pensa così?
«C’è molta ideologia in quelle pressioni. Cedere che eliminare quella norma possa sbloccare la creazione di posti di lavoro è irreale: lo dimostrano i numeri. Quando fermammo il governo Berlusconi, nonostante l’articolo 18, l’economia, fino al 2008 continuò a crescere. Quando, anni dopo, la Fornero intervenne su quelle norme snaturandole la corsa della disoccupazione non si placò».
Tutta colpa dei «cattivi» di Bruxelles quindi?
«A Bruxelles si può resistere. Anni fa la Ue chiese al piccolo Belgio di eliminare una legge che prevedeva un meccanismo automatico di potenziamento dei redditi più bassi. Una sorta di piccola scala mobile per intenderci, e lo dico senza rimpianti. Bene il piccolo Belgio disse di no. D’altra parte il nostro premier non ha detto, poco tempo fa, «basta diktat, sulle riforme decidiamo noi»? Ecco questa potrebbe essere una buona occasione per dimostrarlo».
Lei dice che l’abolizione dell’articolo 18 non porterebbe nessun nuovo posto di lavoro.
«Al contrario, l’eliminazione del reintegro causerebbe un aumento dei licenziamenti, visto che verrebbe a cadere l’effetto deterrente che produce».
Qual è allora, secondo lei, la formula per incentivare l’occupazione?
«Per me è sempre valida la vecchia ricetta keynesiana: investimenti pubblici in grado di smuovere investimenti privati».
Con quali soldi?
«Cerchiamoli: ricorriamo agli Euorbond, applichiamo la tassazione sulle rendite finanziarie e utilizziamo quei capiteli per investire in infrastrutture, che creano occupazione immediata, e innovazione. Ritorniamo a parlare seriamente di lotta all’evasione fiscale, come il governo di Prodi e di Visco fece. E ridistribuiamo ricchezza: è l’unico modo per far ripartire la domanda».