La sostanziale inefficacia della costituenda Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal) può essere riassunta dal nuovo procedimento di “cancellazione” dei disoccupati che non rispettino gli impegni di ricerca attiva, presi con la stipulazione del patto di servizio. I centri per l’impiego debbono comunicare la violazione del patto di servizio all’Inps; l’Istituto adotta il provvedimento che dispone la decadenza dall’assegno di disoccupazione; il lavoratore può presentare ricorso all’Anpal, che allo scopo dovrà istituire un apposito “comitato”, con la partecipazione delle parti sociali.
Oggi, la cancellazione dalle banche dati dei disoccupati è disposta direttamente dai centri per l’impiego delle province, cui consegue l’eventuale disposizione dell’Inps di decadenza dai benefici connessi. Il lavoratore può presentare un semplicissimo ricorso gerarchico al dirigente dei servizi per il lavoro, che entro 30 giorni decide.
Col nuovo sistema, si scatena una fitta rete di comunicazioni, provvedimenti, decisioni, rinvii tra un ente e l’altro, la necessità di presentare ricorso non nella stessa provincia di domicilio o residenza, ma a Roma, dove ad istruire la pratica provvederà un pletorico comitato, invece di un soggetto monocratico.
Se l’Agenzia voleva essere il taumaturgico rimedio per risollevare le sorti delle politiche attive del lavoro in Italia, il decreto legislativo che la regola purtroppo conferma le più nere previsioni: l’Agenzia sarà davvero poco più del solito “carrozzone”.
Una piccola divisione di 400 dipendenti provenienti dal Ministero e dall’Isfol, che dovrà occuparsi del coordinamento generale delle politiche del lavoro, del monitoraggio, del sistema informativo unico nazionale, ma senza svolgere direttamente le funzioni di politica attiva.
Invece di assorbire i centri per l’impiego ed acquisire la competenza all’erogazione diretta delle prestazioni legate allo stato di disoccupazione (Naspi, Asdi, Dis-coll), l’Agenzia resta un impalpabile soggetto di coordinamento generale, compresso dall’alto dal Ministero del lavoro che manterrà, ovviamente poteri di indirizzo e pianificazione, e, dal basso, dalle regioni che conservano comunque le proprie funzioni di indirizzo e coordinamento.
Così, forse, non poteva non essere, visto che in assenza della riforma del Titolo V della Costituzione che assegna alle regioni le funzioni sulle politiche attive, se lo Stato le avesse riacquisite d’imperio mediante l’Agenzia si sarebbe esposto all’incostituzionalità della decisione.
Dunque, l’Agenzia nascerà, quando nascerà, come struttura di servizio del Ministero e in parte delle regioni, ma senza poteri di erogazione diretta dei servizi.
Il lato positivo della scelta è certo quello dell’accentramento di coordinamento, indicatori, sistemi di profilazione degli utenti, determinazione dei costi standard e dei criteri di accreditamento degli operatori privati.
Tuttavia, questi criteri si affiancheranno a quelli regionali; le regioni manterranno i propri sistemi di accreditamento e di relazione con gli operatori privati e solo la stipulazione di convenzioni le potrà indurre a co-gestire con lo Stato progetti speciali di inserimento lavorativo dei disoccupati, quale l’assegno di ricollocazione, per altro utilizzando limitati fondi e, dunque, con la destinazione a platee di disoccupati certamente limitate.
L’idea dell’acquisizione all’Agenzia della gestione diretta dei servizi per il lavoro, mediante i centri per l’impiego ed i servizi per il lavoro ancora oggi gestita dalle province tramonta.
Il decreto legislativo, dunque, disegna un sistema estremamente frastagliato, nel quale le competenze si diluiscono tra Ministero del lavoro, Agenzia, quel che resterà di Isfol ed Italia lavoro, regioni e province autonome, Inps e centri per l’impiego, sul cui destino e la cui funzionalità, tuttavia, le ombre sono tantissime.
Non sfugge che il decreto compie l’operazione a sorpresa (ma, forse, nemmeno tanto) di non accollare all’Agenzia i 7500 dipendenti ed il costo complessivo (circa 700 milioni) dei servizi per il lavoro oggi operanti presso le province. Al contrario, attribuisce alle regioni ed alle province autonome il compito di erogare i servizi ai cittadino, attraverso propri uffici denominati centri per l’impiego. Insomma, il decreto legislativo passa alle regioni la patata bollente del funzionamento, dell’organizzazione e della spesa connessa ai centri per l’impiego, con una compartecipazione alla spesa, ribadiamo di circa 700 milioni annui, di soli 70 milioni (un decimo) per i soli anni 2015 e 2016.
Se, dunque, le regioni vedono scongiurato il pericolo di una avocazione di dubbia legittimità costituzionale delle competenze sulle politiche attive per il lavoro, mantenendo le proprie prerogative, tuttavia sono forzosamente destinatarie, senza alcun finanziamento e con palese violazione dell’articolo 119, comma 4, della Costituzione, dei centri per l’impiego.
I nodi, allora, della riforma, sono essenzialmente due. Il primo, il più grave: la riorganizzazione e complicazione del sistema, che vedrà l’ingresso di un nuovo soggetto, l’Anpal, che si aggiungerà a quelli già esistenti, senza alcuna razionalizzazione sul piano organizzativo, ma, soprattutto, senza nessun maggiore investimento di risorse sulle politiche del lavoro.
L’Italia resterà, dunque, fanalino di coda rispetto ai Paesi europei nel finanziamento delle politiche attive per il lavoro, con i suoi 700 milioni di spesa ed appena 7500 dipendenti addetti, a fronte dei 9 miliardi e dei circa 100.000 addetti in Germania.
Non potrà essere certamente la nascita dell’Agenzia, da sola, a migliorare l’efficienza di servizi che restano palesemente sottodimensionati e sotto finanziati, al di là di qualsiasi meritoria operazione di coordinamento, informatizzazione e determinazione di costi standard.
Il secondo nodo è proprio quello, allora, dell’erogazione del servizio. Il decreto può essere la svolta definitiva verso l’affidamento esclusivamente al privato? L’articolo 18, comma 2, del decreto stabilisce che le regioni e le province autonome potranno svolgere i servizi di erogazione diretta ai disoccupati ivi previsti “direttamente o mediante il coinvolgimento dei soggetti privati accreditati”.
Una formulazione talmente ampia, questa, da lasciar pensare che le regioni che non intenderanno accollarsi la quota parte di dipendenti e spesa connessa ai servizi provinciali, potranno disfarsi del servizio pubblico ed affidarsi totalmente e solo al sistema privato. Il che va benissimo, se si intende rafforzare il servizio nel suo complesso; un po’ meno bene se l’assegno di ricollocazione o il sistema di “doti” per i lavoratori si riveli nella sostanza un modo per assicurare ai privati un finanziamento pubblico sotto mentite spoglie, che consenta di giungere anche al pagamento del servizio da parte del lavoratore disoccupato e comporti la rinuncia totale e definitiva dell’Italia, in controtendenza con gli altri Paesi, alla gestione diretta dei servizi per il lavoro, che, fino a prova contraria, dovrebbe essere imposta dal fatto che i servizi sono “prepagati” con le tasse. A meno che, a fronte di ciò, non si dimostri la riduzione delle imposte per lavoratori ed imprese almeno pari al costo (irrisorio rispetto ai parametri europei) dei servizi per il lavoro.
Luigi Oliveri
Dirigente Coordinatore Area Servizi alla Persona e alla Comunità
Provincia di Verona
@Rilievoaiace
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Agenzia per il lavoro: flebile coordinamento e incertezze sull’erogazione dei servizi