“Alla fine di tutto, noi siamo le nostre scelte”. Queste parole, pronunciate nel maggio del 2010 da Jeff Bezos, fondatore e Ceo di Amazon, davanti ai giovani studenti di Princeton, sono particolarmente utili anche per chi voglia ricostruire la storia e immaginare il futuro di un intero Paese e non solo di una singola persona. E sono queste le parole che mi vengono in mente ora per commentare a caldo le misure sul lavoro approvate ieri dal Consiglio dei Ministri guidato da Matteo Renzi. Difficile immaginare oggi quale sarà il futuro di un Paese come il nostro in evidente declino, non solo economico, e anche per questo in grave difficoltà nel contesto internazionale e comparato. È però certo che quando gli storici ricostruiranno le vicende del lavoro in Italia degli ultimi trent’anni, l’elemento più significativo da valutare saranno le scelte compiute dai Governi e dai sindacati.
Invero, almeno sino ad oggi, si è trattato di non scelte o comunque di scelte rimaste a metà del guado. Così è stato per il pacchetto Treu, il primo grande tentativo di riscrittura delle regole del mercato del lavoro ha infatti perso tasselli decisivi tra la iniziale proposta tecnica (1995) e la sua attuazione politica in sede di concertazione (1996) e infine di dibattito parlamentare (1997), limitandosi alla rivoluzione del lavoro interinale, una scelta compiuta ben trent’anni prima in tutti gli altri Paesi europei di rilievo.
Lo stesso può dirsi per la riforma Biagi del 2003: l’ambizioso tentativo di superare le vecchie tecniche regolatorie del lavoro subordinato nella impresa fordista per delineare un nuovo Statuto di tutti i lavori è stato presto archiviato a causa della forte azione di contrasto sindacale, per tradursi in un intervento ai margini del mercato del lavoro concentrato sulle sole flessibilità in ingresso nel mercato del lavoro e su un tentativo, fallito, di ridisegnare attraverso l’alternanza, l’apprendistato, il placement universitario ed i percorsi di transizione dalla scuola al lavoro. I nodi dell’articolo 18, della giustizia del lavoro e della riforma degli ammortizzatori sono invece presto confluiti in un disegno di legge delega (n. 848-bis) subito collocato su un binario morto per la mancanza di adeguato sostegno politico e soprattutto sindacale verso una scelta pure nettamente enunciata nel Libro Bianco sul mercato del lavoro dell’ottobre 2001.
Anche la scelta di un modello regolatorio sussidiario e cooperativo, affidato a robusti sistemi bilaterali e assetti contrattuali fortemente decentrati, è fallita: la legge sulla partecipazione non è mai venuta alla luce, mentre la centralità della contrattazione collettiva di prossimità è stata sancita (d.l. n. 138/2011) nella totale indifferenza degli attori sociali. Questi hanno subito replicato con la celebre postilla del settembre 2011 (apposta a margine della ratifica da parte di Confindustria e Cgil-Cisl-Uil all’accordo interconfederale del 28 giugno 2011) secondo cui “le materia delle relazioni industriali e della contrattazione sono affidate alla autonoma determinazione delle parti” con ciò escludendo la volontà di utilizzare gli spazi aperti dal Legislatore a deroghe contrattuali di secondo livello a norme di legge e/o contratto collettivo nazionale di lavoro.
A metà del guado è rimasta poi la legge Fornero che, nel recepire la suggestione del “contratto unico” di derivazione dottrinale, ha solo scalfito il totem dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e ha proceduto in parallelo a una compressione delle forme flessibili di lavoro introdotte negli anni precedenti creando non pochi danni al mercato del lavoro, secondo una logica dirigista che ha finito per comprimere ogni spazio di azione alla autonomia non solo individuale ma anche collettiva, fino all’intervento parzialmente correttivo, a colpi di cacciavite, del Governo Letta che, seppure accompagnato da rilevanti risorse economiche, poco o nulla ha inciso sulle dinamiche del mercato del lavoro e sulla propensione delle imprese ad assumere.
Grandi, dunque, erano le attese verso il Jobs Act annunciato da Matteo Renzi nella convinzione che fosse finalmente giunto il tempo delle scelte. Quelle scelte decisive e coraggiose che consentono di svoltare. “La svolta buona” come affermato più volte dal Presidente del Consiglio attraverso una tecnica e abilità di comunicazione certamente sino a qui mai viste tra i suoi predecessori. Doveva essere la svolta del contratto unico a tempo indeterminato, ma così non è stato. Il Governo ha anzi approvato il suo esatto contrario con una sostanziale liberalizzazione del contratto di lavoro a termine che già oggi copre il 60 per cento degli avviamenti al lavoro. Nel breve periodo la misura è senza dubbio utile per riattivare il mercato del lavoro anche se si pone in piena contraddizione, nel medio e lungo periodo, con la filosofia più volte annunciata del Jobs Act di sostegno al lavoro di qualità e alla lotta al precariato. Di fatto viene così svuotato l’articolo 18, su cui si sceglie ancora una volta di non intervenire direttamente, incentivando fortemente le imprese ad assunzioni temporanee con una opzione regolatoria che pare tuttavia in aperto contrasto con la Direttiva europea che impone precisi limiti alla reiterazione di contratti a termine.
Inutile comunque fermarsi a questi rilievi di sistema in un Paese come il nostro che conosce tassi di lavoro nero e di disoccupazione, specie giovanile, tra i più alti d’Europa. Positiva anche la scelta di tagliare le tasse sul lavoro dipendente per i salari bassi, anche se non si comprende bene la strategia di fondo vista la portata più che altro elettorale e di breve periodo della misura che consente di tagliare fuori e anzi piegare nel complesso il potere di veto del sindacato costretto ora a far buon viso a cattiva sorte. Vengono così ora accettate passivamente dal sindacato scelte sulla flessibilità in entrata su cui si era arenato il Governo Letta (la causale del termine per Expo 2015) e sui cui avevano fallito tutto i precedenti Governi incapaci di prendere di petto il sindacato e rottamare fino in fondo la concertazione.
Delude, tuttavia, una visione limitata del mercato del lavoro che non riconosce la realtà dei nuovi lavori e soprattutto delle collaborazioni autonome genuine.
Bene invece l’intervento sulla “Garanzia per i giovani” che viene opportunamente estesa ai giovani fino a 29 anni, mentre sino a ieri era limitata agli under 25. Positivo anche l’aver riconosciuto nell’apprendistato il contratto principe per l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro anche se l’estrema semplificazione realizzata per decreto rischia ora di rivelarsi un boomerang con gravi danni per le imprese perché si ripropone il noto caso dei contratti di formazione e lavoro che sono stati giudicati dall’Europa come aiuto di Stato (con obbligo per le aziende di restituire gli sgravi) perché privi di un robusto contenuto formativo pubblico.
Poche le misure da subito operative. Il grosso dell’intervento di semplificazione del mercato del lavoro è rinviato a una legge delega che dovrà essere incardinata nel parlamento, con tutte le complicazioni e i tempi decisamente lunghi e incerti che questo comporta. Per fare solo un esempio, con un precedente progetto di riforma analogo, dal disegno di legge alla attuazione della legge Biagi ci sono voluti quasi tre anni.
Alla fine di tutto, insomma, anche sul mercato del lavoro noi siamo il frutto delle nostre scelte e, ancora una volta, il rinvio dei nodi critici e le scorciatoie prese sulla flessibilità e la costruzione di un vero sistema di apprendistato come leva della produttività delle imprese ci porta a ritenere che, al di là delle dubbie coperture finanziare, la svolta culturale non c’è stata e si è scelto di non scegliere in attesa di tempi migliori.
Coordinatore scientifico ADAPT
@Michele_ADAPT