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Lo scorso 4 e 5 novembre si è tenuto a Venezia il convegno “Garzoni. Apprenticeship, work, society in early modern Venice”, organizzato dalla Prof.ssa Sapienza e dalla Prof.ssa Bellavitis dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, e avente come obiettivo quello di presentare i primi risultati ottenuti da una ricerca storica sulla diffusione dell’apprendistato nella Venezia dei secoli XVI-XVIII, grazie alla quale sono stati digitalizzati e raccolti in un database online più di 50.000 accordi di garzonato. Un convengo quindi in grado di far luce su come, concretamente, l’apprendistato era regolato nella società pre-industriale, quali erano i suoi obiettivi e quali gli strumenti e i metodi messi in campo per raggiungerli. Al convegno erano presenti Patrick Wallis, Professore di Economic History presso la London School of Economics, e Bert De Munck, Professore di Social and Urban History presso la Antwerp University, massimi esperti dei temi trattati, ai quali sono state rivolte le seguenti domande.
L’apprendistato è ancora oggi indicato come uno strumento utile a favorire l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, anche se le differenze con il contesto storico pre-industriale sono, ovviamente, molteplici. Un elemento oggi particolarmente dibattuto, ad esempio negli Stati Uniti, è quello dell’individuazione degli enti preposti alla sua regolamentazione: lo Stato? I corpi intermedi? Le parti sociali? Le singole imprese? A diverse regolamentazioni corrispondo, poi, anche diverse logiche con cui questi percorsi sono strutturati, così come gli obiettivi che si prefiggono. Com’era regolato l’apprendistato nel contesto pre-industriale?
P. Wallis: Spesso si corre il rischio di identificare l’apprendistato nel contesto pre-industriale con il sistema corporativo, cioè con quelle istituzioni cittadine composte dai maestri di un determinato mestiere, che venivano create con il principale obiettivo di regolare il mercato e la concorrenza. L’apprendistato era, indubbiamente, uno strumento utile per controllare e limitare l’accesso a determinati mestieri e corporazioni, in quanto per arrivare al rango di maestro in molti casi bisognava aver svolto diversi anni da apprendista e poi da “lavorante” in bottega. Molte evidenze documentali, provenienti da tutta Europa, ci consegnano però un quadro più complesso e articolato: seppure è indubbio che le corporazioni svolsero un ruolo regolatorio fondamentale, è altrettanto certo che l’apprendistato era diffuso anche in loro assenza, regolato privatamente o da altri enti cittadini, e che spesso gli statuti corporativi rimasero sullo sfondo, indicando regole generali poi diversamente declinabili in sede di stesura del singolo contratto d’apprendistato. Emergono quindi chiaramente i contorni di un istituto altamente flessibile, capace di adattarsi alle diverse esigenze dei diversi contesti sociali e produttivi, e non riducibile a “solo” strumento corporativo per la regolazione del mercato. Basti pensare a come, con la Rivoluzione Industriale, l’apprendistato non ha seguito il destino delle corporazioni, abolite o ormai destinate alla sparizione in diversi Paesi europei, ma si è trasformato riuscendo a “entrare” anche in fabbrica.
B. De Munck: il ruolo e il peso giocato dal sistema corporativo è molto diverso nei diversi Paesi europei. Ad esempio le gilde inglesi sono diverse da quelle tedesche, a loro volta differenti da quelle italiane. Praticamente ovunque era presente una tensione tra l’apprendistato come strumento per l’acquisizione di competenze e conoscenze tecniche – sulla base di un accordo orale o di un contratto scritto – e l’apprendistato come sistema per acquisire e attribuire un certo status, sia da parte delle corporazioni che da altre istituzioni locali. Quindi, l’apprendistato non era mai “solo” un semplice contratto, e risulta incomprensibile se lo si guarda da una prospettiva esclusivamente giuridica od economica. Era invece uno strumento con il quale realtà che spesso avevano un forte peso sulla politica – non solo economica – cittadina e locale, le corporazioni appunto, esercitavano il loro potere, cercando di innescar meccanismi altamente conservativi e difensivi nel tentativo di mantenere intatti i loro privilegi economico – sociali. Ma l’apprendistato non può essere ridotto al sistema corporativo, in quanto esisteva anche al di fuori di esso, come contratto privato tra le parti. L’apprendistato, insomma, era regolato in modi diversi proprio perché voleva raggiungere obiettivi diversi, coinvolgendo diverse istituzioni e non solo quelle corporative, a partire da specifiche esigenze locali e territoriali.
Oggi l’apprendistato è pensato come una seconda scelta per contrastare il drop out scolastico o come strumento per favorire l’integrazione di competenze professionali nei tradizionali percorsi d’istruzione. In Italia, è poco conosciuto e spesso utilizzato per abbattere il costo del lavoro, più che per esigenze formative. Quali erano, invece, gli obiettivi dell’apprendistato nella società pre-industriale?
P. Wallis: In un periodo storico contraddistinto da mercati altamente instabili quale è quello pre-industriale, l’apprendistato è stato un utile strumento per creare legami e costruire conoscenze condivise. Legami contraddistinti da una spiccata dimensione formativa, ovviamente, ma non solo: attraverso l’apprendistato, prima di tutto, si imparava un mestiere. Questo percorso d’apprendimento è difficilmente comprensibile se lo si legge con le categorie contemporanee, come se fosse un percorso formativo professionalizzante. Piuttosto, mestiere voleva dire conoscenza e riconoscimento sociale: queste due dimensioni, quella privata del sapere e quella pubblica dell’essere erano intrinsecamente legate. L’alta mobilità degli apprendisti e la flessibilità dello strumento permisero inoltre una diffusione delle conoscenze e dei saperi tale da garantire ai lavoratori la capacità non solo di rispondere alle sfide poste dalle trasformazioni tecniche, ma di governarle attivamente.
B. De Munck: L’apprendimento è ovunque, è invisibile. Diventa visibile solo quando è regolato. L’apprendistato nell’epoca pre-industriale fu questo: un sistema capace di legare assieme apprendimento, lavoro, e potere. Il suo scopo era quello non solo di fornire ai giovani conoscenze che ora definiremmo “tecniche” o “professionali”, ma di garantirgli uno status, un’identità sociale. Con la Rivoluzione Industriale si separa la dimensione economica dello strumento dalla funzione socio-politica: in precedenza, attraverso l’apprendistato si entrava in società, non solo si impara un mestiere. Chi concludeva l’apprendistato regolato dalle corporazioni era lo stesso che poi controllava il mercato, e in questo si esplica la dimensione del potere sopra richiamata. Durante e dopo la Rivoluzione Industriale, questo legame viene meno: chi conclude l’apprendistato è “solo” un lavoratore specializzato, qualificato.
Negli ultimi anni diversi studiosi hanno cercato di leggere l’apprendistato a partire da una prospettiva di storia economica. Come mai? Qual è il valore aggiunto che può portare questa materia agli studi sul tema?
P. Wallis: La disponibilità di grandi database digitalizzati, come ad esempio quello realizzato per il progetto “Garzoni” a Venezia, permettono di studiare il fenomeno a partire dall’analisi di un’ampia base documentale, a cui vengono applicate specifiche categorie economiche nel tentativo di descrivere il più possibile in modo accurato com’era, concretamente, la vita nel contesto pre-industriale e, in questo caso, come l’apprendistato era davvero regolato e vissuto. Spesso, nel guardare al passato e non solo, si rischia di ragionare in modo astratto, senza verificare come, nella realtà, le idee su cui si ragiona erano vissute e declinate. Anche se le fonti sono sempre rare, per il contesto di cui stiamo parlando, riuscire ad accedere a database online e a confrontarsi con altri studiosi permette oggi di ricostruire con maggiore efficacia la storia dell’apprendistato.
D. De Munck: L’elemento davvero interessante a proposito del contributo che gli studi di storia economica sull’apprendistato e sulla formazione del capitale umano possono offrire è la sempre maggiore attenzione posta sul più ampio contesto istituzionale. L’apprendistato viene ora letto in modo sistemico, approfondendo elementi quali il ruolo giocato dalle istituzioni, a diversi livelli. Ma penso che ci sia la necessità di reintegrare anche gli aspetti culturali e socio-politici, e di esaminare le trasformazioni a lungo termine e come queste si intrecciano con la dimensione economica. Penso ai legami sussistenti tra potere, conoscenza, lavoro, fondamentali per ricostruire lo scopo e il senso dell’apprendistato, anche per meglio inquadrare i ragionamenti contemporanei sull’istituto.
Trovate delle affinità tra il contesto preindustriale e l’attuale, contraddistinto dalla quarta rivoluzione industriale? E qual è il ruolo che può giocarvi l’apprendistato?
P. Wallis: Certo, ci sono delle affinità. Oggi la logica della grande fabbrica, dell’azienda novecentesca e della divisione verticale del lavoro, con la netta separazione tra lavoratori, tra competenze, tra ruoli, sembra in declino, a favore di una logica più simile a quella della bottega artigiana, sia per le dimensioni di tante micro e piccole imprese, che ora tornano ad essere competitive a livello globale grazie all’utilizzo di nuove tecnologiche, ma soprattutto per l’organizzazione del lavoro emergente da questi ambienti. Un’organizzazione non più rigidamente verticistica, ma più simile a quella della bottega dove lavoratori con diverse competenze e capacità collaborano per generare una massa critica capace di generare prodotti competitivi sui mercati. In contesti come questi, dove si chiede ai lavoratori di collaborare e costruire assieme conoscenze, l’apprendistato può essere un utile strumento proprio per favorire questo scambio e questa costruzione partecipata, nonché la trasmissione di conoscenze tra generazioni.
D. De Munck: Dall’Illuminismo abbiamo ereditato un’astratta separazione tra mente e mano, tra pensiero e azione, categorie incapaci di descrivere il lavoro proprio della bottega pre-industriale. Anche la contrapposizione tra competenze trasversali e tecniche non riesce a restituirci la ricchezza dell’esperienza della bottega artigiana. Oggi come allora, è sempre più necessario riflettere sul valore fondamentale dell’antropologia della conoscenza, cioè come l’uomo apprende: credo che ricostruire il sistema dell’apprendistato pre-industriale possa essere utile per rimettere al centro del dibattito, anche oggi, non tanto parole un po’ astratte come formazione o competenze, ma per comprendere la connessione tra la conoscenza e il contesto sociale e culturale in cui sorge, ad esempio tra formazione della conoscenza e cooperazione. Oltre a ciò, è importante per andare oltre l’idea che la conoscenza intellettuale o astratta è per definizione superiore alla conoscenza pratica, e così rivalutare il “fare artigiano”.
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
Università degli Studi di Bergamo