Alle radici della crisi delle professioni sanitarie*

ADAPT – Scuola di alta formazione sulle relazioni industriali e di lavoro

Per iscriverti al Bollettino ADAPT clicca qui

Per entrare nella Scuola di ADAPT e nel progetto Fabbrica dei talenti scrivi a: selezione@adapt.it

Bollettino ADAPT 16 settembre 2024 n. 32
 
Ripensare e riorganizzare la grande “industria della salute”. Questa la ricetta, a detta di molti, per fronteggiare la crisi di vocazioni professionali nel settore della sanità e della assistenza ad anziani e persone con disabilità. È proprio così, è questo quello che serve? Dati recenti segnalato in effetti che, tra il 2010 e il 2024, il numero di domande per immatricolarsi ai corsi di laurea in infermieristica è passato da 46 a 21 mila. Un dato che da solo sarebbe sufficiente ad interrogarsi profondamente sulla visione che i giovani di oggi hanno nei confronti delle professioni in ambito sanitario. Ma la situazione è ancora più grave sapendo che nello stesso arco di tempo il numero di posti a disposizione è cresciuto da 16 a 20 mila, riducendo così drasticamente la distanza tra posti e candidature. Siamo al punto che in molti atenei i concorsi si svolgono con un numero di partecipanti inferiore ai posti disponibili. Lo stesso vale anche per i medici e per figure professionali altrettanto preziose, seppure collocate al fondo della scala professionale e sociale, come gli operatori socio sanitari, gli operatori socio assistenziali, gli operatori tecnici addetti alla assistenza e via discorrendo.
 
Di certo tra gli indiziati c’è anche la causa demografica, con lo svuotamento delle coorti anagrafiche più giovani ma non possiamo accontentarci di questa consolazione “contabile”, anche perché è la stessa dinamica demografica, dal lato opposto (quello dell’invecchiamento) a rendere ancora più necessarie queste figure professionali. Durante la pandemia ci siamo abituati a definire “essenziali” lavori come questi, e più in generale quelli nell’ambito socio-assistenziale e della cura della persona, arrivando ad abusare di termini come “eroe” per raccontare le fatiche ai quali dovevano sottoporsi. Ma spesso dimentichiamo che queste fatiche, che sono fisiche ma sono molto spesso psicologiche, non sono certo state l’eccezione della pandemia, che non ha fatto altro che intensificare dinamiche che nel settore sono quotidiane. L’insieme di queste fatiche, a cui si aggiunge una organizzazione del lavoro che inevitabilmente deve garantire un servizio continuativo e retribuzioni basse, viene tentata dalla concorrenza di tanti altri settori che offrono lavori più semplici con salari migliori, prospettive di crescita, orari meno anti-sociali. E così il numero di persone che intraprende questi studi, che sono necessari per un lavoro che non può prescindere dall’elevata professionalità che si richiede a chi ha a che fare con persone in difficoltà, diminuisce.
 
Le soluzioni che di fronte a questa crisi, della quale forse ancora non si respira la portata, vengono proposte sono molte volte illusioni consolatorie che vanno dal pensare di risolvere tutto rapidamente con la forza lavoro straniera fino all’utopia di una automazione che dovrebbe sostituire anche figure di questo genere. Forse però è più interessante provare a ripensare seriamente questo settore e insieme ad esso tutto il lavoro socio-assistenziale e di cura a partire da almeno tre dimensioni, di importanza crescente. Il problema è infatti essenzialmente dato dalla visione di “industria” e di “efficienza” tecnico-organizzativa quando la crisi di vocazioni, testimoniata anche dagli altissimi tassi di assenteismo e di turn over tra il personale, è data prima di tutto dal valore sociale e relazione di mestieri che non sono centrati sulla funzionalità di una macchina o di una linea di produzione ma sulla fragilità o la malattia di una persona.
 
Certamente c’è una questione di qualità del lavoro, di orari e turni e di modelli organizzativi, che non possono non fare i conti con lavoratori che hanno esigenze diverse dal passato, contesti famigliari molto più fragili o assenti, e minori legami che gli consentono di reggere stress psicologici importanti. E non si può più sottovalutare anche la dimensione economica, che non può più pensare di basarsi sul fatto che questo lavoro, che sicuramente ha una dimensione vocazionale e relazionale forte, possa essere sotto-pagato in quanto lavoro manuale dall’apparente scarsa produttività. Come se il contribuire al benessere fisico e mentale di una persona, garantire la qualità della sua vita e curarlo dal dolore possa essere valutato come si valuta il prodotto di una catena di montaggio.
 
La vera questione resta tuttavia quella di rimettere al centro una dimensione di senso, di ragioni del perché oggi, di fronte a tante opzioni alternative, abbia un valore scegliere di impegnarsi in un lavoro di questo genere. Un lavoro che ha connaturata la dimensione del dono e del sacrificio, ma che, anche per le dimensioni che abbiamo illustrato, rischia di scadere nel cinismo e nell’apatia di chi trova soluzioni per sopportare situazioni insopportabili. A maggior ragione quando il decisore pubblico, nazionale e soprattutto regionale, guarda a questo settore solo dal punto di vista dei parametri tecnici di accreditamento e non sul valore sociale e generativo di vita e di relazioni di questo mondo.   Queste tre dimensioni stanno ovviamente insieme, perché parlare di senso e di vocazione senza un lavoro dignitoso, con turni accettabili e ben pagato non è più immaginabile. Ma è chiaro che si deve ripartire dal senso per trovare poi la soluzione delle non facili questioni di natura tecnica ed economica.
 
Francesco Seghezzi
Presidente ADAPT

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è X-square-white-2-2.png@francescoseghezz
 
Michele Tiraboschi
Professore Ordinario di diritto del lavoro

Università di Modena e Reggio Emilia
Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è X-square-white-2-2.png@MicheTiraboschi
 
*pubblicato anche su Avvenire, 14 settembre 2024

Alle radici della crisi delle professioni sanitarie*
Tagged on: