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Bollettino ADAPT 24 luglio 2023, n. 28
È convinzione diffusa che la ripresa economica dell’Italia passi necessariamente anche attraverso la semplificazione delle norme in materia di appalti e concessioni pubbliche; per questa ragione, il legislatore ha deciso di riformare il Codice degli appalti pubblici. Con l’approvazione della legge-delega 21 giugno 2022, n. 78 e la successiva attuazione tramite il d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36, il precedente Codice (d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50), caduto più volte sotto la scure della Corte di Giustizia dell’Unione Europea a causa dell’incompatibilità tra il diritto eurounitario e la disciplina (limitativa) del subappalto, è stato definitivamente abrogato e superato. Se da un lato il nuovo testo pare calmierare le rigidità della precedente disciplina sulla possibilità di ricorrere al subappalto, dall’altro il nuovo Codice conserva quelle disposizioni di interesse per la tutela non solo dei lavoratori coinvolti nei lavori che la pubblica amministrazione affida ai privati ma anche della concorrenza tra le imprese, che non possono formulare offerte vantaggiose in fase di gara alterando al ribasso il costo della manodopera.
In questa prospettiva, l’art. 11, comma 2 del nuovo Codice, sulla falsa riga di quanto già previsto dall’art. 30 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, conferma la regola secondo la quale “Nei bandi e negli inviti le stazioni appaltanti e gli enti concedenti indicano il contratto collettivo applicabile al personale dipendente impiegato nell’appalto o nella concessione”: ma di quale contratto collettivo deve trattarsi? È l’art. 11, comma 1 a stabilire che “Al personale impiegato nei lavori, servizi e forniture oggetto di appalti pubblici e concessioni è applicato il contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e quello il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto o della concessione svolta dall’impresa anche in maniera prevalente”.
Sotto questo profilo, il nuovo Codice degli appalti pubblici non presenta aspetti particolarmente innovativi: la prima parte della disposizione appena menzionata, infatti, oltre a poter essere pacificamente ricondotta nella ampia famiglia delle clausole sociali (per una definizione, cfr. E. Ghera, Le c.d. clausole sociali: evoluzione di un modello di politica legislativa, in DRI, 2001, n. 2, pp. 133-155, spec. p. 133), è una duplicazione dell’art. 30, comma 4 del precedente Codice degli appalti pubblici (d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50), da sempre oggetto di discussione tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, a partire dal cosa debba intendersi quando la disposizione fa riferimento all’applicazione del contratto collettivo. Sebbene la giurisprudenza amministrativa abbia sempre negato che l’art. 30, comma 4 imponesse l’applicazione di un determinato contratto collettivo, soprattutto in un contesto in cui più contratti collettivi possono astrattamente essere applicati rispetto alle tipologie di opere e servizi affidati ai privati (da ultimo, cfr. Cons. St., Sez. V, 15 marzo 2021, n. 2198), la dottrina giuslavorista ha, per contro, costantemente evidenziato che laddove le norme-incentivo facciano esclusivo riferimento all’applicazione del contratto collettivo sottoscritto dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative (c.d. contratto collettivo leader), tali disposizioni non richiedono all’imprenditore di attenersi ai livelli retributivi fissati da tali contratti ma ne richiedono la concreta e integrale applicazione (A. Bellavista, La legge Finanziaria per il 2007 e l’emersione del lavoro nero, WP CSDLE “Massimo D’Antona” – IT, 2007, n. 55, spec. p. 24); peraltro, senza alcun pericolo di incostituzionalità per violazione della libertà sindacale del datore di lavoro (e, dunque, dell’art. 39 Cost.) in quanto l’applicazione del contratto dipende dalla volontà dell’imprenditore di partecipare o meno alla gara di appalto pubblica, di richiedere o meno il riconoscimento di un determinato beneficio economico o contributivo concesso dallo Stato (in questi termini, cfr. E. Ghera, cit., p. 139).
Il nuovo Codice, però, a differenza del suo predecessore, pare aver seguito la tesi giurisprudenziale, la quale da un lato ha sempre negato che l’amministrazione appaltante potesse imporre l’applicazione di un determinato CCNL; dall’altro, però non ha mancato di evidenziare come il rispetto dei parametri economici del contratto collettivo leader fossero funzionali a garantire il divieto di ribasso sui costi della manodopera in fase di gara, garantendo così il rispetto del «principio di libera concorrenza nell’affidamento delle commesse pubbliche» (Cons. St., Sez. V, 9 giugno 2023, n. 5665; per una prima analisi della disposizione, cfr. I. Santoro, ‘A cavallo’ tra due codici: l’equo trattamento dei lavoratori nella nuova normativa sui contratti pubblici, WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT, 2023, n. 467).
Di questa adesione ne dà riscontro l’art. 11, comma 3, laddove precede che “Gli operatori economici possono indicare nella propria offerta il differente contratto collettivo da essi applicato, purché garantisca ai dipendenti le stesse tutele di quello indicato dalla stazione appaltante o dall’ente concedente”. Questo comma, nei diversi dossier di lettura che si sono succeduti nell’analizzare lo schema del decreto prima della relativa approvazione (cfr. ad esempio, quello della Camera dei Deputati o quello del Consiglio di Stato del 7 dicembre 2022), è stato inteso come “clausola di salvaguardia”, per evitare che la disposizione potesse contrastare con il principio della libertà sindacale di cui all’art. 39 Cost., che, lato datoris, si sostanzia nella scelta del CCNL da applicare ai rapporti di lavoro.
Il successivo comma 4 precisa ulteriormente che “Nei casi di cui al comma 3, prima di procedere all’affidamento o all’aggiudicazione le stazioni appaltanti e gli enti concedenti acquisiscono la dichiarazione con la quale l’operatore economico individuato si impegna ad applicare il contratto collettivo nazionale e territoriale indicato nell’esecuzione delle prestazioni oggetto del contratto per tutta la sua durata, ovvero la dichiarazione di equivalenza delle tutele. In quest’ultimo caso, la dichiarazione è anche verificata con le modalità di cui all’articolo 110”.
La struttura dell’art. 11 del nuovo Codice, dunque, rappresenterebbe un “compromesso normativo” tra quanto previsto dal precedente Codice (art. 30, comma 4, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50) e quanto già disposto dall’art. 36 dello Statuto dei Lavoratori (legge n. 300 del 1970), ad oggi ancora in vigore, secondo il quale “[…] nei capitolati di appalto attinenti all’esecuzione di opere pubbliche, deve essere inserita la clausola esplicita determinante l’obbligo per il beneficiario o appaltatore di applicare o di far applicare nei confronti dei lavoratori dipendenti condizioni non inferiori a quelle risultanti dai contratti collettivi di lavoro della categoria e della zona […]”. Concepita come norma-incentivo ai fini dell’applicazione dei contratti collettivi – soprattutto nelle aree geografiche economicamente più depresse dell’Italia – a fronte della mancata attuazione dell’art. 39 Cost. (F. Mancini, Sub art. 36, in Statuto dei diritti dei lavoratori, in A. Scialoja, G. Branca (a cura di), Commentario al Codice Civile, 1972, p. 542), è stato pacificamente ritenuto che tale disposizione normativa «attribuisce a ciascuno dei lavoratori un vero e proprio diritto soggettivo alla applicazione del trattamento minimo previsto dal contratto collettivo, senza che ciò comporti una diretta estensione della sua efficacia soggettiva [rectius, l’applicazione integrale da parte dell’imprenditore]. Il contratto collettivo assolve, invece, la funzione di parametro o termine di raffronto, nel senso di fornire una semplice indicazione del minimo livello normativo e retributivo da rispettare» (E. Ghera, cit., p. 135). Qualificata dalla giurisprudenza come una pattuizione in favore di terzi (art. 1411 cod. civ.), la clausola sociale prevista dall’art. 36 St. Lav. impone alcune garanzie minime per i lavoratori, «prevalentemente di carattere retributivo, ma non solo», che prescindono dall’applicazione di un determinato CCNL (E. Ghera, cit., p. 133). A questa logica sembra ora ispirarsi il nuovo Codice degli appalti pubblici.
I dubbi che, però, solleva l’art. 11 sono diversi. Anzitutto, occorrerebbe chiedersi se non vi sia stato un eccesso di delega laddove l’art. 1, comma 2, lett. h) della legge 21 giugno 2022, n. 78 chiedeva al legislatore delegato solo di “garantire l’applicazione dei contratti collettivi nazionali e territoriali di settore” in relazione all’oggetto dell’appalto ma non anche di poter garantire all’appaltatore l’applicazione di un contratto collettivo differente purché nel rispetto dell’equipollenza delle tutele (se non per i lavoratori dipendenti del subappaltatore: l’art. 1, comma 2, lett. h), infatti, prevede la possibilità di “[…] garantire le stesse tutele economiche e normative” solo “per i lavoratori in subappalto rispetto ai dipendenti dell’appaltatore […]” ma non anche per i dipendenti di quest’ultimo).
Proseguendo oltre, occorre chiedersi cosa deve contenere la “dichiarazione di equivalenza delle tutele” di cui all’art. 11, comma 4 per consentire all’appaltatore di salvaguardare la sua libertà sindacale (rectius, l’applicazione di un determinato CCNL) e l’interesse della pubblica amministrazione affinché ai lavoratori siano garantiti determinati livelli di tutela. In altri termini, tra il CCNL indicato nel bando di gara e quello applicato dall’appaltatore in nome del principio sancito dall’art. 39, comma 1 Cost., cosa bisogna comparare per poter dire che i livelli di tutela dei due CCNL sono sostanzialmente equivalenti? I minimi tabellari? Tutto il trattamento economico? Quello minimo (TEM) o quello complessivo (TEC)? È inclusa anche la parte normativa? E le prestazioni degli enti bilaterali o le indennità sostitutive (che pure rientrano nell’art. 36 Cost. come ricorda la circolare del Ministero del Lavoro 15 dicembre 2010, n. 43)? La formazione? Insomma, la disposizione solleva molti interrogativi, tali da poter inaugurare, contrariamente alle attese, una nuova stagione di contenziosi, che potrebbero, oltreché intasare le aule di giustizia, bloccare i cantieri delle opere e dei servizi pubblici affidati ai privati.
Per poter pensare di dare “forma” e “corpo” a questa dichiarazione di equivalenza delle tutele – rispetto alla quale, per quanto possiamo constatare ora, dopo 4 mesi dall’entrata in vigore del Codice ancora nessun ente amministrativo si è espresso nel dare indicazioni concrete sul punto – una possibile strada pare sia offerta dalle precedenti circolari dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL), in particolare la n. 2 del 28 luglio 2020, nella quale, ai fini del riconoscimento dei benefici normativi e contributivi ex art. 1, comma 1175 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 l’Ente precisa che il CCNL liberamente scelto dal datore di lavoro deve soddisfare uno standard minimo. Standard che può essere verificato anche attraverso la comparazione tra il CCNL applicato dal datore di lavoro in concreto e il CCNL individuato dalla norma (quello leader). Ai fini di una sostanziale uguaglianza tra le due fonti – e quindi ai fini della sussistenza dei requisiti richiesti dalla norma per poter consentire all’impresa di accedere alle agevolazioni contributive e normative – l’INL ha fornito una prima sintetica tabella (suscettibile di integrazioni) contenente gli istituti retributivi e un elenco riportante nove trattamenti normativi inderogabili in senso peggiorativo, sui quali gli ispettori dovranno effettuare una verifica di equivalenza rispetto al CCNL leader. In particolare, la circolare fa riferimento: a) alla disciplina concernente il lavoro supplementare e le clausole elastiche nel part-time; b) alla disciplina del lavoro straordinario; c) alla disciplina compensativa delle ex festività soppresse; d) alla durata del periodo di prova; e) alla durata del periodo di preavviso; f) alla durata del periodo di comporto in caso di malattia e infortunio; g) alla malattia e infortunio; h) alla maternità ed eventuale riconoscimento di un’integrazione della relativa indennità per astensione obbligatoria e facoltativa; i) al monte ore di permessi retribuiti.
Questa soluzione però – prospettata da chi scrive già da qualche tempo e in diverse occasioni – sebbene accolta positivamente dagli operatori (riprende il tema E. De Fusco, Nei bandi va indicato il Ccnl applicabile ai dipendenti impiegati nell’attività, in Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2023) presenterebbe anch’essa delle criticità, che non allontanano il rischio di contenzioso (sul punto, cfr. G. Piglialarmi, R. Schiavo, La check list dell’Ispettorato del Lavoro dei trattamenti economici e normativi minimi per il diritto ai benefici normativi e contributivi (e non solo), in Bollettino ADAPT 7 settembre 2020, n. 32).
Quanto alla comparazione del trattamento retributivo, la circolare richiede il confronto sulla retribuzione globale prevista dai due CCNL (quello previsto dalla norma e quello applicato dal datore) che, secondo l’Ispettorato, è composta da “particolari elementi fissi della retribuzione e da quelli variabili” quando questi “siano considerati come parte del trattamento economico complessivo definito dal contratto collettivo nazionale di categoria”. La definizione di trattamento economico complessivo, però, è rimessa ai CCNL che sul punto non presentano particolari tratti di omogeneità, residuando peraltro il problema del welfare contrattuale, la cui sistematizzazione tra corrispettività (in termini di trattamento economico) e funzione previdenziale è ancora oggetto di discussione. Quanto al trattamento economico minimo, peraltro, gli ispettori dovranno fare attenzione non solo ai minimi tabellari ma, a titolo esemplificativo, anche alle mansioni che potrebbero essere distribuite in maniera diversa, al numero di mensilità, agli scatti di anzianità. Senza contare che in alcuni CCNL, il trattamento minimo tabellare è solo “apparentemente” parificato al CCNL leader, in quanto questo è suscettibile di deroga in virtù della localizzazione geografica della sede operativa dell’azienda (per un’indagine in tema, G. Piglialarmi, Anatomia della contrattazione collettiva pirata. Spunti di riflessione da una ricerca sui contratti Cisal e Confsal, in DRI, 2021, n. 3, pp. 687-723).
Quanto alla comparazione del trattamento normativo, è doveroso evidenziare i limiti di un’operazione interpretativa tesa a rintracciare un’equipollenza di tutele in (soli) nove istituti normativi. Questa opzione interpretativa non consente di apprezzare il complesso sistema di regole su cui si basa una trattativa contrattuale, togliendo valore a quel sistema di relazioni industriali che, in virtù della rappresentatività degli attori negoziali, regola un settore produttivo (non va infatti dimenticato che la trattativa per la stipulazione di un contratto collettivo si svolge in un determinato contesto storico ed economico che ne condiziona gli esiti ed è per questo costruita attraverso reciproche concessioni per giungere poi ad un punto di incontro; sarebbe del tutto irrazionale, come osservato dalla Corte Costituzionale, “isolare una singola clausola e valutarla indipendentemente da un contesto della trattativa assai più ampio”, così Cort. Cost. 9 marzo 1989, n. 103).
In alternativa, un’altra soluzione è offerta dall’art. 41, comma 13 del nuovo Codice, laddove prevede che “Per i contratti relativi a lavori, servizi e forniture, il costo del lavoro è determinato annualmente, in apposite tabelle, dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali sulla base dei valori economici definiti dalla contrattazione collettiva nazionale tra le organizzazioni sindacali e le organizzazioni dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative, delle norme in materia previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle differenti aree territoriali” (cfr. Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Analisi economiche e costo del lavoro per settore, 2022). Le voci delle tabelle ministeriali, dunque, potrebbero essere il parametro al quale ragguagliare i livelli salariali praticati dall’appaltatore.
Ma nemmeno questa proposta interpretativa potrebbe convincere fino in fondo proprio perché l’art. 11 del d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36 parla effettivamente di “tutele” e non di “tutele economiche” o di equipollenza del solo “trattamento economico”. In altri termini, dunque, non basta rifarsi ai valori salariali delle tabelle ministeriali per poter affermare che l’appaltatore riconosca ai propri dipendenti livelli di tutela equipollenti a quelli previsti dal CCNL leader del settore merceologico in cui ricade l’oggetto dell’appalto.
Davanti a questo scenario, è possibile ritenere che si complica notevolmente la gestione degli appalti pubblici. Insomma, almeno sotto il profilo del rispetto delle tutele lavoristiche, di tutto si può parlare fuorché di semplificazione, giacché l’art. 11 non offre alcun parametro ai fini della verifica dell’equivalenza delle tutele tra i 1.037 CCNL presenti nell’archivio del CNEL molti dei quali sottoscritti da organizzazioni sindacali scarsamente rappresentative (cfr. ultimo report depositato dal CNEL, aggiornato al 30 giugno 2023, sul numero di CCNL sottoscritti in Italia), rimettendo tutto alla libera interpretazione della amministrazione appaltate che peraltro, ai sensi dell’art. 41, comma 14 del nuovo Codice, per determinare l’importo posto a base di gara, dovrà individuare nei documenti di gara i costi della manodopera per garantirne lo scorporo, fermo restando che lo stesso imprenditore avrebbe il diritto di dimostrare che il ribasso complessivo dell’importo deriva da una più efficiente organizzazione aziendale (evidenzia tale problematica, G. Lezzi, Appalti a rischio contenzioso con il nuovo obbligo di indicazione del Ccnl nei bandi, in Il Sole 24 Ore, Enti Locali ed Edilizia, 13 giugno 2023). All’orizzonte, dunque, non v’è una prospettiva confortante in termini di certezza del diritto.
Giovanni Piglialarmi
Ricercatore presso il Dipartimento di Economia “M. Biagi”
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia