L’entrata in vigore del decreto legislativo n. 81/2015 sancisce la fine del c.d. Testo Unico dell’apprendistato del 2011, un provvedimento nato dopo un lungo confronto con le Istituzioni regionali e tutte le parti sociali e già più volte rimaneggiato nel corso degli ultimi quattro anni da continui interventi di “aggiustamento”. A prima vista, la scelta del Legislatore appare in linea con le esigenze di semplificazione delle regole del mercato del lavoro e di riconduzione ad una disciplina organica dell’insieme delle diverse tipologie contrattuali. Una lettura attenta delle dinamiche occupazionali italiane e dell’ultimo Rapporto dell’ISFOL, tuttavia, mostra come l’abolizione del Testo Unico e la scelta di considerare l’apprendistato alla stregua di un qualsiasi altro contratto di lavoro flessibile è un errore sia di metodo che di merito.
Il “vero” apprendistato, quello in grado di fronteggiare l’emergenza occupazionale dei giovani, è quello che mette in raccordo sistematico il mondo della formazione scolastica, universitaria, di ricerca con il mondo produttivo. È, in altre parole, l’apprendistato impostato in una ottica di placement e quindi in grado di far dialogare due realtà in Italia assolutamente distanti: scuola e lavoro. Su questa prospettiva si reggeva l’impianto complessivo del Testo Unico del 2011 che faticosamente cercava di porre in equilibrio interessi diversi per giungere ad una formazione integrale della persona in grado di assicurare anche un rapido ingresso nel mercato del lavoro. Questa impostazione sembra del tutto abbandonata dalla nuova disciplina dell’apprendistato che non riconosce la tipicità dello strumento e riduce tutta la costruzione del raccordo scuola-lavoro ad una serie di adempimenti burocratici – i vari protocolli richiesti per il I e III livello – fortemente presidiati dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali e senza il necessario apporto delle Parti Sociali. Ovvero coloro che rappresentano il mercato del lavoro e ne conoscono le logiche e le esigenze.
L’errata impostazione metodologica ha delle ricadute a livello di merito delle singole disposizioni e così, nonostante le velleità del Legislatore, che espressamente richiama il celebre modello duale tedesco di alternanza tra formazione e lavoro (art. 41, comma 3), pare facile prevedere anche nei prossimi anni un trend di costante declino dell’apprendistato “scolastico” in Italia che, come certifica il XV Rapporto di monitoraggio dell’ISFOL avrebbe invece bisogno di un robusto sostegno per poter effettivamente decollare e non rimanere una esperienza limitata del territorio di Bolzano. Sostegno che, attualmente, è ulteriormente depotenziato dalla forte incentivazione economica del contratto a tempo indeterminato legata alle misure di decontribuzione contenute nella legge di stabilità del 2015.
Che il Legislatore non abbia capito fino in fondo la natura e la finalità dell’apprendistato è dimostrato, poi, dall’articolo 46 del d.lgs. n. 81/2015 che smantella, di fatto, il lavoro di raccordo tra standard professionali e standard formativi contenuto nell’articolo 6 del decreto legislativo n. 167/2011. L’improvvisazione e l’approssimazione sui contenuti formativi dell’apprendistato e sui percorsi di certificazione delle competenze è del resto totale se è vero che mentre il Jobs Act richiama insistentemente il libretto formativo di cui all’articolo 2, comma 1, lettera i, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, il successivo schema di decreto legislativo sulle politiche attive, approvato in prima lettura dal Consiglio dei Ministri dell’11 giugno 2015, ne decreta la formale abrogazione (art. 34).
Lo stesso raccordo con il sistema di validazione degli apprendimenti non formali ed informali e certificazione delle competenze – istituito con il decreto legislativo n. 13 del gennaio 2013 ma non ancora operativo, a distanza di più di due anni – è affidato a richiami rituali, che ancora una volta tradiscono la mancanza di una visione di sistema finalizzata ad una reale integrazione tra formazione e lavoro. L’articolo 41, comma 3, identifica in effetti nel solo apprendistato volto al conseguimento di un titolo di studio una organica forma di integrazione tra formazione e lavoro (l’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore e quello di alta formazione e ricerca, qui impropriamente assimilato tout court all’ambito della formazione formale). Tale raccordo tra lavoro e formazione sarebbe confermato dal riferimento di tali percorsi ai titoli di istruzione e formazione e alle qualificazioni professionali contenuti nel Repertorio nazionale di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 16 gennaio 2013, n. 13, nell’ambito del Quadro europeo delle qualificazioni. L’articolo 46, sempre nell’ottica di assicurare tale raccordo tra formazione e lavoro, prevede che al fine di armonizzare le qualifiche e le qualificazioni professionali conseguibili in apprendistato e correlare standard formativi e standard professionali sia istituito, presso il Ministero del lavoro, il repertorio delle professioni, predisposto sulla base dei sistemi di classificazione del personale contenuti nei contratti collettivi. Ora, se è plausibile l’ipotesi che i titoli di istruzione e formazione professionale insieme ai diversi titoli dell’istruzione superiore e terziaria conseguibili in apprendistato confluiscano nel Repertorio nazionale di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 16 gennaio 2013, n. 13 citato – ancora molto lontano da una concreta attuazione, come evidenziato anche dal CEDEFOP in un recente rapporto sui quadri nazionali delle qualifiche in Europa – ad oggi fumosa appare la prospettiva di una reale integrazione delle qualificazioni professionali in tale Repertorio. Essa presupporrebbe, infatti, la compiuta realizzazione di un sistema di validazione degli apprendimenti non formali, uno straordinario sforzo di codifica e aggiornamento dei profili professionali ad opera della contrattazione collettiva, collegato ad un ammodernamento dei sistemi di classificazione del personale, operazioni difficilmente realizzabili in seno ad un “comitato tecnico” ministeriale, come ampiamente dimostrato dallo stallo finora registratosi su questo preciso fronte. L’impressione che il Repertorio nazionale si limiti ad una operazione di sommatoria di repertori già esistenti e sia destinato a rimanere monco della componente realmente in grado di assicurare un raccordo tra formazione e lavoro (quella legata agli standard professionali) è forte, ed è supportata dalla letteratura sui National Qualification Frameworks istituiti per esigenze di conformità con il Quadro europeo delle qualifiche (richiamato espressamente nel testo in commento): orientati più verso una operazione di referenziazione su scala europea di titoli e qualifiche formali che verso una veritiera operazione di collegamento tra formazione mondo del lavoro, tali quadri hanno finito per servire più gli interessi delle istituzioni educative che quelli del mercato del lavoro, con scarso impatto sul fronte del sostegno alle transizioni occupazionali.
Venuta meno l’idea di un apprendistato inteso come strumento di placement il rilancio dello strumento è ora affidato ad una serie di benefici economici. Sul primo e terzo livello tale impostazione è più che evidente con la scelta di un calcolo della retribuzione che scorpora tutta la formazione esterna all’azienda e riconosce un valore del 10% della retribuzione spettante per il periodo formativo in impresa. A queste misure di “sistema” si accompagnano poi ulteriori incentivi economici per il 2015-2016 già abbozzati all’articolo 32 dello Schema di decreto legislativo recante disposizioni per il riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e politiche attive.
L’esperienza di Garanzia Giovani, ma anche di precedenti programmi nazionali come ad esempio FiXO, non sembra aver insegnato nulla al Legislatore. Il solo incentivo economico – per quanto robusto – si per sé non è in grado di (ri)lanciare il sistema apprendistato. Per questo scopo occorre, invece, un raccordo continuo tra mondo del lavoro e mondo della scuola che al momento (purtroppo) non si vede.
Il Jobs Act è quindi l’ennesima occasione mancata per una vera ripartenza dell’apprendistato. Al posto di una stabilità del quadro regolatorio – già frammentato a livello regionale, come indica il XV Rapporto dell’ISFOL – si apre infatti un nuovo periodo transitorio dai confini incerti che altro non farà che dilatare i tempi e procrastinare sine die la piena implementazione dell’istituto. Siamo insomma ancora lontani dalle buone prassi internazionali ed europee, come indica la tabella che segue, a partire dalla regola di base che, per la costruzione di un sistema di apprendistato come ambito dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro nelle fasi di transizioni dalla scuola al lavoro, richiede una stabilità del quadro normativo e istituzionale di riferimento.
Ed in effetti, per imitare il “famoso modello tedesco” sarebbe stato opportuno muoversi lunga la medesima direttrice, invece che limitarsi ad affermazioni rituali e di principio nella parte prescritti del decreto. In Germania, la struttura dell’apprendistato è ancora oggi regolata dalla legge federale sulla formazione professionale del 1969, modificata in modo sostanziale una sola volta ben dieci anni fa (cfr. M. Weiss, Formazione professionale in Germania: il sistema duale, in DRI, n. 1/2014).
In Italia, dopo il lungo cammino che ha portato al Testo Unico del 2011, siamo ancora una volta all’anno zero nella costruzione di un vero e proprio sistema dell’apprendistato, con il quindicesimo intervento normativo di livello nazionale nell’arco di soli cinque anni che dovrà ora confrontarsi con le normative regionali di riferimento e gli oltre 400 contratti collettivi nazionali di lavoro tutti da riscrivere per questo profilo. Con buona pace di tutte le migliori intenzioni e del futuro occupazionale dei giovani a cui ogni riforma del lavoro è pure ritualmente dedicata.
Michele Tiraboschi
Coordinatore scientifico di ADAPT
@Michele_ADAPT
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Apprendistato: una leva del placement più che un (semplice) contratto