Fu il Protocollo del 1993 ad affidare alla contrattazione aziendale il compito di legare gli incrementi salariali al raggiungimento di obiettivi di competitività. Da allora, nelle aziende (ancora poche) interessate dalla contrattazione integrativa, gli agenti negoziali hanno definito e applicato diverse tipologie di premio di risultato. Osservando il fenomeno dal settore metalmeccanico bresciano, è possibile fotografare una certa disomogeneità nei contratti e nelle retribuzioni variabili. Indici di produttività, efficienza, qualità e redditività sono più volte enfatizzati nei documenti sottoscritti ma raramente associati ad una medesima modalità di calcolo. Caratteristica quest’ultima, che evidentemente rispecchia la diversità delle realtà produttive ed è funzionale a rispondere alle loro specifiche esigenze.
Eppure, qualcosa sta cambiando nell’universo in (potenziale) espansione della contrattazione decentrata bresciana e il settore metalmeccanico sembra convergere verso strumenti condivisi per la misurazione degli incrementi salariali. Il riferimento è all’OEE (Overall Equipment Effectiveness), conosciuto dall’ingegneria industriale e gestionale e un po’ meno dalla pratica e teoria delle relazioni industriali.
Si tratta di una misura introdotta per la prima volta negli anni Sessanta dal giapponese Seiichi Nakajima per valutare la performance di singoli impianti di produzione. L’OEE è applicabile a qualsiasi tecnica di produzione “lean”ma nasce come colonna portante del TPM (Total Productive Mantenance): un sistema produttivo che si avvale di dati statistici e team autonomi specifici per il perseguimento di obiettivi quali l’eliminazione degli sprechi, la manutenzione preventiva e il miglioramento continuo. La metodologia del TPM è, per intenderci, quella che ispira il WCM (World Class Manufacturing), oggi impiegato da FCA nei suoi vari stabilimenti in Italia. L’OEE consta di tre sotto-indicatori: disponibilità, efficienza e qualità. Il primo è dato dal rapporto tra il tempo effettivo di produzione e il tempo teorico a disposizione; il secondo misura la produzione reale rispetto a quella prevista (dettata dal ciclo ideale); e il terzo confronta il numero di pezzi conformi rispetto al totale di quelli prodotti. A partire dagli anni Ottanta, l’OEE è diffuso in tutto il mondo occidentale e viene utilizzato anche in quelle realtà produttive italiane, caratterizzate da un grado medio-alto di automazione e che competono su un mercato dei prodotti sempre più intollerante alle perdite di qualità, flessibilità ed efficienza. Volendo azzardare un’equazione matematica, potremmo dire che l’OEE sta alle prestazioni di un impianto di produzione come il PIL sta alla competitività di uno Stato.
Non sembrano esserci dubbi, allora, sulla utilità di questo strumento, consacrato dall’ingegneria industriale per la misurazione delle performance nella moderna manifattura. Ma la comparsa del parametro OEE nei contratti collettivi aziendali della provincia bresciana (e non solo), come modalità di calcolo della retribuzione variabile, solleva questioni di inevitabile rilevanza sindacale, che impongono una riflessione circa gli effetti che l’applicazione di principi ingegneristici genera sulle logiche di azione collettiva.
In primo luogo, spettando alla contrattazione di secondo livello il compito di legare il salario al raggiungimento degli obiettivi di competitività, l’introduzione di indicatori non più artigianalmente costruiti potrebbe sgomberare il campo da eventuali dubbi circa l’effettiva capacità del contratto collettivo di misurare il miglioramento delle performance aziendali. Inoltre, l’applicazione di nuovi parametri, prestati alle relazioni industriali dalla ricerca in ambito ingegneristico, potrebbe offrire alle organizzazioni sindacali l’impulso necessario ad accrescere le loro competenze, per affiancare la direzione aziendale nella gestione congiunta dei moderni premi di risultato. D’altro canto, però, la complessità degli attuali sistemi di produzione si riflette in complessi strumenti di misurazione del loro rendimento, che se tradotti in premi di risultato, rischiano di non essere di facile lettura e comprensione per i lavoratori e i loro rappresentanti. Eventualità ricorrente nella provincia di Brescia, e potenziale ostacolo al successo di un sistema premiante nell’esercizio della sua (almeno) duplice funzione, incentivante oltre che redistributiva.
Infine, la portata innovativa dell’OEE sul piano della contrattazione integrativa sembra incontrare, nel contesto metalmeccanico bresciano, la resistenza di certe preoccupazioni tipiche del sindacato di fronte a un premio di risultato. Come valorizzare il lavoro delle persone? Come far sì che l’incremento salariale rifletta l’impegno di coloro che ne beneficiano? E quindi come coinvolgere il lavoratore nel perseguimento degli obiettivi connessi all’erogazione salariale? Ad incidere sul rendimento dell’OEE sono infatti i guasti, i tempi di preparazione della macchina, gli scarti, le rilavorazioni, la ridotta velocità di esecuzione, ecc.: aspetti che sono in parte controllabili da manutentori e conduttori, ma su cui pesano in misura altrettanto considerevole le scelte organizzative e di investimento, tradizionalmente in capo alla direzione aziendale.
Simili questioni, che chiamano in causa il senso stesso del premio di risultato, emergono frequentemente nella realtà delle relazioni industriali, e il sindacato non può esimersi dal darne risposta ai lavoratori. La logica “premiale” della retribuzione variabile sembra, infatti, aver avvalorato la percezione di alcuni esperti e operatori del settore che per poter funzionare, i premi di risultato debbano riflettere tanto l’andamento delle realtà produttive quanto il concreto impegno delle persone. Un impegno che però, se connesso alla sola esecuzione della prestazione, spesso non basta a garantire il raggiungimento degli obiettivi di performance aziendali, e quindi la soddisfazione e la fiducia dei lavoratori nei confronti del sistema premiante. Ecco che allora, per sfruttare a pieno le potenzialità dei premi di risultato e l’impiego di indicatori ingegneristici quali l’OEE, si auspicherebbero una maggiore chiarezza e trasparenza sul calcolo delle performance, nonché una più netta corrispondenza tra “partecipazione al rischio” e “partecipazione alla produttività”. Intendendo con questa espressione il coinvolgimento di lavoratori e rappresentanti nelle scelte gestionali riguardanti gli investimenti di natura tecnologica e organizzativa, i progetti di formazione e qualificazione professionale, ecc. La maggiore autonomia riconosciuta al lavoratore all’interno dei processi decisionali aziendali potrebbe così permettere non soltanto di approcciarsi a quelle pratiche di organizzazione del lavoro che smarcate da antiche logiche gerarchiche sono spesso associate a maggiori livelli di produttività (le c.d. High Performance Work Practices), ma anche di realizzare uno scambio più equo tra salario flessibile e impegno delle persone. Ammettere l’importanza della partecipazione alle scelte d’impresa come corrispettivo della variabilizzazione degli aumenti salariali non significa di certo ignorarne le criticità (es. l’ostilità delle imprese verso forme di partecipazione dei lavoratori alle dinamiche produttive e organizzative, la difficoltà di modificare sistemi decisionali verticistici, la diffidenza delle maestranze verso pratiche che potrebbero comportare una intensificazione del loro lavoro, l’impreparazione della parte sindacale ad occuparsi delle questioni gestionali ed economiche aziendali, ecc.), ma provare ad andare fino in fondo a un cambiamento che deve traghettare le imprese nella modernità, tanto dei prodotti e dei processi produttivi quanto delle relazioni industriali.
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Bergamo