Il lavoro accessorio è al centro della discussione sui temi del lavoro degli ultimi tempi, soprattutto a seguito del boom registrato nell’uso dello strumento e del referendum proposto dalla CGIL, che ha recentemente ricevuto l’approvazione della Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 28/2017).
La storia del lavoro accessorio, pur breve, risulta essere travagliata, fin dalla sua introduzione ad opera della legge Biagi nel 2003 (d. lgs. 276/2003). Più volte oggetto di riforma da parte dei legislatori che si sono succeduti, la disciplina del lavoro accessorio (per la cui eliminazione si è mossa la CGIL) è contenuta oggi nel d. lgs. n. 81/2015 (artt. 48-50).
Molti i profili discussi dalla dottrina, che hanno interessato (e ancora interessano) la natura stessa del lavoro accessorio: da un lato ci si è interrogati sulla natura autonoma o subordinata della prestazione; dall’altro sulla riconducibilità dello stesso a tipologia contrattuale ovvero a mero strumento di pagamento della prestazione.
Non solo. Come ben espresso dalla sentenza della Corte Costituzionale, a seguito delle numerose modifiche alla sua regolazione, è cambiata anche la originaria natura occasionale del lavoro accessorio, così come la sua funzione. Così si esprime la Corte:
«Invero, attraverso i ricordati interventi normativi, la originaria disciplina del lavoro accessorio, quale attività lavorativa di natura meramente occasionale, limitata, sotto il profilo soggettivo, a particolari categorie di prestatori, e, sotto il profilo oggettivo, a specifiche attività, ha modificato la sua funzione di strumento destinato, per le sue caratteristiche, a corrispondere ad esigenze marginali e residuali del mercato del lavoro. Tale modifica appare già emblematicamente attestata dal cambiamento della denominazione della rubrica del Capo II del d.lgs. n. 276 del 2003 in cui risultano inserite le originarie previsioni normative («Prestazioni occasionali di tipo accessorio rese da particolari soggetti») rispetto a quella recata dal Capo VI del d.lgs. n. 81 del 2015, («Lavoro accessorio»), nel quale sono inseriti gli articoli di cui si chiede l’abrogazione referendaria, in quanto viene a mancare qualsiasi riferimento alla occasionalità della prestazione lavorativa quale requisito strutturale dell’istituto».
Tanto l’evoluzione della disciplina, con la discussione ancora in itinere rispetto alla caratteristica della occasionalità – oggi venuta meno, ma un domani forse verrà reintrodotta – quanto le tradizionali divisioni sull’interpretazione della natura stessa del lavoro accessorio pongono una serie di criticità anche in ambito comparato, in particolare al momento di rendere l’istituto in lingua inglese. Ciò è particolarmente vero se si considerano le formulazioni utilizzate in letteratura per tradurre il concetto preso in esame.
Una prima possibilità è quella di tradurre la nozione di lavoro accessorio con la perifrasi ancillary employment contract, opzione questa rinvenibile in alcune pubblicazioni e su alcuni portali della Commissione europea (es. EURES). Questa scelta comporta importanti conseguenze: fare uso nella traduzione del termine contract vorrebbe dire, infatti, optare per una certa interpretazione del dato normativo. A ben vedere, un discorso analogo si realizza anche per quanto attiene l’utilizzo di employment (che si collega a rapporti di tipo subordinato). In quest’ultimo caso, benché sia stato oggetto di discussione la natura autonoma o subordinata della prestazione, il riferimento a employment ci parrebbe da non prendere in considerazione, allineandosi quindi a un orientamento maggioritario che nega il rilievo della distinzione con riferimento al lavoro accessorio.
Il ricorso alla perifrasi occasional accessory contract, sarebbe altrettanto da evitare, in quanto possibile fonte di ambiguità interpretativa. In primo luogo, per la presenza del sostantivo contract, per cui valgono le osservazioni già fornite in precedenza, e in secondo luogo perché, almeno allo stato attuale, il venir meno del requisito di occasionalità non giustifica il ricorso all’aggettivo occasional nella versione in lingua inglese.
In dottrina[1] è altresì frequente l’espressione accessory work. Si tratta di una traduzione letterale dell’istituto italiano, che, sebbene necessiti di una nota esplicativa al fine di facilitare la piena comprensione di un osservatore straniero, ha comunque il pregio di essere libera da dubbi di natura interpretativa.
Infine, un’ultima opzione per rendere in inglese la tipologia di lavoro accessorio è quella di fare uso della perifrasi voucher-based work, così come avviene frequentemente in ambito internazionale (es. EUROFOUND), magari mantenendo l’espressione italiana “lavoro accessorio” come riferimento. A ben vedere, e sebbene la formulazione in oggetto si allontani molto dal testo di partenza, sembra essere proprio questa la resa più efficace dell’istituto, in quanto suddetta traduzione privilegia la descrizione della modalità di esecuzione della prestazione lavorativa (attraverso i voucher) anziché la natura della stessa. In questo modo, l’espressione permette di comparare l’istituto ad altri istituti comparabili a livello europeo, così da comprendere continuità e discontinuità di questa forma di lavoro nei diversi ordinamenti. D’altronde, la bontà di questo approccio è evidente anche se si considera che una formulazione di questo tipo è valida al di là dell’esito del dibattito politico che farà seguito alla recente approvazione del referendum costituzionale.
ADAPT Junior Research Fellow
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[1] Si veda tra gli altri Carinci, F. Menegatti E., Labour Law and Industrial Relations in Italy – Update to the Jobs Act no. 183/2014, IPSOA, 2015.