Difficile parlare di futuro del lavoro senza discutere del futuro dell’economia. E futuro dell’economia significa spesso progettare modelli che sono molto differenti dagli attuali. Questi vanno a colpire, volenti o nolenti, un sistema spesso assodato e per questo generano resistenze. Un esempio è quello della sharing economy sulla quale si concentra l’ultimo volume del sociologo americano Jeremy Rifkin. Questo modello sostiene che l’economia del futuro funzionerà sempre più secondo la categoria della condivisione piuttosto che quella della produzione, con un conseguente mutamento dalla centralità del possesso di un bene a quella del suo accesso da parte di utenti che lo condividono.
Le implicazioni di questo modello sul mercato del lavoro sono evidenti: diminuzione dei posti di lavoro nei settori produttivi classici, centralità del lavoro nell’economia dei servizi, maggior flessibilità e cambiamenti repentini. Abbiamo discusso di tutto questo con Benedetta Arese Lucini, country manager italiana di Uber, società che con le sue modalità innovative di gestione del trasporto urbano ha generato roventi polemiche negli ultimi mesi. Che si condivida o meno la filosofia di Uber, in un momento di recessione e deflazione non possiamo evitare di prendere in seria considerazione il modello della sharing economy.
– Quali sono secondo lei le traiettorie sulle quali si sta muovendo la Grande trasformazione del lavoro contemporaneo?
Vorrei dire flessibilità, ma ormai di questa parola se ne dà un’interpretazione solamente negativa. E allora despazializzazione e asincronicità. Lo sviluppo tecnologico e il mutamento degli stili di vita stanno facendo sì che sempre più persone lavorino a prescindere da un luogo fisico fisso (l’ufficio, lo studio… ) e da un orario prestabilito. Stiamo imparando a coordinare team diffusi non solo su territori nazionali, ma nei cinque continenti. Uber ne è un esempio: ogni giorno ho riunioni in conference call con persone dall’altro capo del pianeta. Le regole del lavoro non vedono questo mondo, ma spesso non lo vedono nemmeno i datori di lavoro, ancora abituati a modelli superati e anche inefficienti.
– Nel Novecento il posto di lavoro coincideva con il contratto a tempo indeterminato. Oggi i mestieri nascono e muoiono in pochi anni, così come le imprese. Come cambia l’idea del posto di lavoro in questa situazione?
Diventa centrale l’idea di opportunità di lavoro. E la tecnologia porta nuove opportunità. Molti driver NCC prima dell’arrivo di Uber erano in difficoltà, perché i settori dai quali veniva tradizionalmente la domanda erano a loro volta in crisi. Molti di loro ora hanno migliorato la loro condizione e cominciato a ragionare in maniera imprenditoriale.
Infatti penso che il fatto che il posto non sia certo debba essere visto come uno stimolo, per la persona e per il business. Quando mi rendo conto che il mio apporto è cruciale per il successo d’impresa, allora lavoro in un’altra maniera. E poi le esperienze di lavoro diventano ognuna un’opportunità di crescita e contaminazione per il lavoro successivo. È questo lo spirito delle migliaia di giovani che si propongono per lavorare in Uber.
– Uber sta lanciando una sfida al modello economico attuale, promuovendo la condivisione dei beni come punto centrale rispetto alla produzione. Le previsioni del calo produttivo che caratterizzerà i prossimi anni (si parla di un calo del 40% della produzione di automobili) come cambieranno il mondo del lavoro?
Non è una sfida solo di Uber. E poi la condivisione dei beni in realtà è una cosa naturale. C’è sempre stata, ma ora è facilitata dallo sviluppo di nuove piattaforme in rete e sta ritornando anche a causa di una minor disponibilità di reddito e di una maggiore sensibilità ai temi ambientali. Non possiamo nascondere che proprio un modello economico basato sulla produzione ha anche portato con sé delle esternalità negative, che ora abbiamo difficoltà a governare. Aumenterà l’importanza dei servizi – e già tuttora è la componente di servizio sul prodotto che fa la differenza
– Un allarme lanciato da molti è che lo sviluppo tecnologico coinciderà con un maggior disoccupazione. Pensa che questa tesi sia sostenibile?
Penso che sia una sfida da cogliere. Se cambiano i lavori e i modelli di business, allora deve cambiare anche il modo di lavorare. È naturale che con le grandi innovazioni ci siano grandi contraccolpi sul piano sociale, ma dobbiamo lasciare libera la società e l’economia di agire con reattività. Anche perché secondo uno studio promosso dall’American Chamber of Commerce in Italy con McKninsey per ogni posto di lavoro perso grazie ad internet se ne creano 1,8.
* Leggilo su Il Sole 24 Ore, Nòva (Il blog di ADAPT) del 7 ottobre 2014.