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Più il tempo passa, più evidente è la delusione per il risultato della sperimentazione dell’assegno di ricollocazione.
Senza voler necessariamente utilizzare il vocabolo “flop”, forse troppo abusato, indubbiamente si riscontrano questi elementi:
1) dei circa 30.000 lavoratori sollecitati dall’Anpal a richiedere l’assegno di ricollocazione, nemmeno il 10% si è dimostrato interessato;
2) gli inserimenti lavorativi sono certamente pochi (i media non ne stanno dando conto: segno che l’obiettivo è lontano ancora dall’essere raggiunto);
3) i lavoratori non sono particolarmente incentivati ad utilizzare lo strumento, perché capiscono che non dà diritto loro di percepire il valore dell’assegno e, ulteriormente, capiscono che avvalersene significa affrontare una ricerca di lavoro anche impegnativa, col rischio di subire le sanzioni per la condizionalità;
4) le aziende alle quali i lavoratori percettori di Naspi sono segnalati non hanno alcun incentivo particolare, diverso dagli incentivi ordinariamente previsti per i disoccupati, a seconda del loro status o a seconda del tipo di contratto di lavoro attivato;
5) le agenzie per il lavoro private si sono buttate nell’impresa con entusiasmo, ma è evidente che 30.000 persone in tutta Italia, delle quali pochissime aderiscono, non possono certo modificare in modo significativo fatturato e guadagni; di fatto, l’attività viene svolta dalle agenzie per marketing e onore di firma, oltre che per convinzione nella loro mission;
6) i centri per l’impiego confermano la loro gravissima situazione di deficitarietà di personale e, a differenza delle agenzie di somministrazione, nemmeno possono proporre alle aziende cui si rivolgono per l’incontro domanda offerta col percettore di Naspi una ripartizione dell’assegno nel caso di assunzione, poiché le regole pubblicistiche di gestione delle risorse finanziarie non lo consentono; o, almeno, occorrerebbero direttive chiare di Ministero e Regioni, condivise dalla Corte dei conti, perché simile ipotesi possa prendere piede.
Queste evidenze non debbono portare alla conclusione che l’Assegno di ricollocazione è un fallimento punto e basta. Poiché si tratta di una sperimentazione, essa è utile per capire cosa occorra migliorare e modificare.
Il sistema attualmente funziona così: il percettore di Naspi da oltre 4 mesi ha il diritto di chiedere un’assistenza intensiva alla ricerca di lavoro, che attribuisce al soggetto al quale si rivolte un incentivo “a risultato” tra i 2.000 e i 5.000 euro circa, a seconda della profilazione del lavoratore. Dunque, l’assegno è “del lavoratore”, ma i denari vanno all’ente che gli trova lavoro, se a tempo indeterminato o determinato di almeno 6 mesi.
Sul piano pragmatico, creare una “dote” finanziaria per il lavoratore (cioè il valore dell’assegno, commisurato alla profilazione, cioè, spendibilità più o meno marcata nel mercato), senza che ne possano beneficiare in via diretta né il lavoratore stesso, né l’azienda che lo assuma, appare l’equivoco di fondo, che blocca il sistema.
S’è visto con la legge 208/2015 che l’apparente rilancio del lavoro a tempo indeterminato era stato collegato al triennio di sgravi. Le aziende, in sostanza, in una fase di crisi come questa, assumono se riescono a vedere convenienze economiche chiare; altrimenti, il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato o a tempo determinato non inferiore ai 6 mesi risulta troppo rischioso ed oneroso; del resto, tra tirocini, ex voucher (tra breve di nuovo in rampa di lancio), lavoro a tempo determinato acausale prorogabile 5 volte fino a 36 mesi ed altre formule “flessibili”, perché le aziende dovrebbero essere attratte dall’assunzione di percettori di Naspi titolari di Assegno di ricollocazione, visto che, agli occhi delle aziende, questi lavoratori si portano in dote gli ordinari benefici previsti dalla norma?
Certo, è compito dei soggetti che svolgono la funzione di accompagnamento intensivo far percepire all’azienda le utilità: i possibili sgravi, ma anche e soprattutto le abilità lavorative del lavoratore, nella gran parte dei casi confermabili di fatto dalla circostanza che si tratta di persone ancora da poco prive di lavoro e, dunque, in possesso di competenze immediatamente utilizzabili.
Ma, questo compito è defatigante e l’andamento della sperimentazione, fin qui, dimostra che la ricerca intensiva non è immediatamente produttiva di risultati.
Le cose potrebbero cambiare se si uscisse dall’equivoco. Di fatto, l’assegno di ricollocazione appare una fictio iuris per legittimare il pagamento ai soggetti che svolgono attività di incontro domanda/offerta da parte del lavoratore. Ma il legislatore deve scegliere: o i soldi vanno come premio esclusivo di risultato a chi svolge l’incontro domanda/offerta; oppure, possono costruire un incentivo per le aziende ad assumere.
Nel primo caso, oggettivamente la previsione di un compenso astrattamente connesso allo status del lavoratore, che può dunque oscillare di molto, pur a sostanziale parità della quantità di lavoro dell’ente che effettua la ricerca, appare contrario ad ogni legge di mercato; è un pagamento a forfait, un po’ lontano da logiche vere commerciali. Se così è, apparirebbe più corretta una scelta maggiormente equilibrata: fare sì, cioè, che l’assegno di ricollocazione costituisca per gran parte, non inferiore al 70% incentivo all’assunzione da parte dell’azienda, e per la restante parte, per un 20% un compenso per le attività di ricerca standard e un ulteriore 10% “a risultato” a seguito dell’avvenuta assunzione.
L’incentivo all’azienda ovviamente è da segmentare: il 100% del 70% nel caso di assunzione a tempo indeterminato; il 70% nel caso di assunzione a tempo determinato maggiore di 6 mesi; il 20% per assunzioni a tempo determinato fino a tre mesi. Si tratta di una griglia che può essere modificata e ricomposta in vario modo. Eventuali risorse non spese, dovute a tipologie di assunzioni che non consentono la spesa totale dell’assegno, possono andare a rifinanziarlo, per attivarne altri.
Ovviamente, le idee per modificare il sistema potrebbero essere ancora di più e sicuramente migliori di quelle qui proposte. Un fatto appare certo: così com’è il sistema non decolla.
Luigi Oliveri
ADAPT Professional Fellow