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Il Regno Unito, dal dopoguerra ad oggi, è stato sempre definito un “enigma” dagli economisti: livelli di produttività bassi, soprattutto se messi a confronto con quelli degli altri Paesi G7, sono stati accompagnati da fasi anche consistenti di crescita economica. Attualmente la produttività nel Regno Unito è inferiore di circa 19 punti percentuali rispetto a quella degli altri Paesi più industrializzati. La recessione del 2008/9 ha colpito seriamente il Paese, arrestando un andamento positivo della produttività che faceva registrare una crescita di due punti percentuali l’anno. Il declino più forte si è osservato nel settore automobilistico, che però è riuscito a ripartire piuttosto velocemente. Al contrario, nel commercio, non è stato possibile ritornare ai livelli pre-crisi prima del 2014.
La questione della scarsa produttività vuole essere affrontata dall’attuale Governo conservatore attraverso interventi di politica industriale. Nel 2015 è stato presentato uno specifico piano per la produttività, denominato Fixing the Foundations: Creating a More Prosperous Britain, contro il quale, tuttavia, sono state mosse diverse critiche. I sindacati, in particolare, ne hanno denunciato le lacune soprattutto in termini di scarsi investimenti, e hanno messo in luce la mancanza di una visione strategica in tema di formazione e nuove infrastrutture. Interventi in tali campi devono ritenersi ineludibili secondo la confederazione dei sindacati britannici, TUC (Trades Union Congress), che vede nelle politiche di austerity, ree di aver reso sempre più instabile il reddito delle famiglie, la ragione principale della bassa produttività nel Paese. In effetti, se è vero che dalla crisi del 2008 il numero degli occupati è cresciuto, è pur vero che questo aumento sembrerebbe aver riguardato soprattutto lavori poco pagati entro settori a basso valore aggiunto o caratterizzati da una evidente precarietà (si guardi, ad esempio, al largo impiego dei “contratti a zero ore”). In questo contesto, il recente recupero dell’economia del Regno Unito sarebbe riconducibile non tanto ad un aumento della produttività, quanto all’apprezzamento delle proprietà e a una certa ripresa dei consumi, ripresa che però avviene in condizioni generali di contenimento salariale e profonde diseguaglianze sociali.
Livelli bassi di produttività costituiscono un problema strutturale del sistema economico e industriale del Regno Unito, che già dagli anni Sessanta faticava a competere con gli Stati Uniti e le altre maggiori economie europee. A quei tempi, il sistema di relazioni industriali del Paese era caratterizzato da sindacati dal forte potere negoziale e da una contrattazione collettiva multi-livello. Tuttavia, il crescente disallineamento tra un sistema formalizzato di contrattazione collettiva a livello di settore e un sistema più informale di rapporti e negoziazioni a livello aziendale era causa di un preoccupante slittamento salariale e di sempre maggiori livelli di inflazione. Contemporaneamente, la frequenza degli scioperi e
l’influenza dei sindacati nei processi di assunzione della manodopera preoccupavano per le loro ripercussioni sulla produttività del Paese. Sebbene altre motivazioni potevano essere addotte per spiegare i deficit economici del Regno Unito (come la scarsa propensione agli investimenti in capitale umano e formazione), la popolarità delle critiche al sistema di relazioni industriali e le preoccupazioni per la scarsa competitività contribuirono ad avviare un processo di progressivo decentramento e localizzazione della contrattazione collettiva. Oggi, la frammentazione delle relazioni industriali sembra essere l’esito più evidente di quelle spinte. E non è un caso, infatti, che pur in un contesto caratterizzato da una copertura contrattuale generalmente bassa, trovi spazio l’eccezionalità delle relazioni industriali del settore sanitario, dove operano diversi sindacati e dove insiste un contratto collettivo, Agenda for Change, che copre il 100% dei lavoratori.
L’analisi della contrattazione collettiva nel settore automobilistico, della distribuzione, alberghiero e della ristorazione e nel settore sanitario, mette in luce come il problema della produttività venga spesso affrontato, nel Regno Unito, dal lato dei costi della manodopera, cui si tenta di porre un freno tramite l’intensificazione del lavoro, maggiori flessibilità (soprattutto nel settore alberghiero e della ristorazione) ed esternalizzazioni (soprattutto nel settore sanitario). Dal punto di vista della contrattazione aziendale, benché siano riscontrabili pratiche comuni a diversi settori (come sistemi retributivi legati alle performance, ricorrenti tanto nella distribuzione quanto nell’automotive), significative differenze emergono tra le realtà produttive e sono attribuibili al diverso atteggiamento del management nei confronti dei propri lavoratori e dei loro rappresentanti. Si passa, ad esempio, dalla forte ostilità di CoZ (operante nel settore alberghiero), dove non ci sono meccanismi formali di contrattazione, alla cultura industriale propriamente nipponica di Toyota, che rapportandosi con un solo sindacato (Unite) coinvolge fortemente i lavoratori, considerati come membri di un’unica “famiglia”.
Studiando il ruolo della contrattazione collettiva a sostegno della produttività, il rapporto si è concentrato sulle materie della retribuzione, della partecipazione dei lavoratori, delle competenze e dell’organizzazione del lavoro, e della gestione della diversità.
Relativamente al primo aspetto, tra le soluzioni più frequentemente adottate dalle parti sociali in risposta alle esigenze di produttività si dà la flessibilizzazione della struttura salariale, posta in connessione con le performance dei lavoratori. A tal riguardo, però, un aspro dibattito si è acceso nel settore sanitario, dove molti considerano l’introduzione di meccanismi di “performance related pay” (PRP) controproducente, poiché la remunerazione non costituirebbe un canale motivazionale di chi lavora sulla salute delle persone. Al contrario, nel settore alberghiero e della ristorazione, c’è consenso nel considerare le mance come un premio “naturale” al buon lavoro dei dipendenti, grazie al quale ai lavoratori è garantito un guadagno adeguato.
Sebbene studi empirici abbiano dimostrato che il coinvolgimento dei dipendenti dà luogo a un utilizzo più efficiente delle strumentazioni aziendali (non soltanto perché buoni suggerimenti possono provenire dalle persone che lavorano nei reparti di produzione, ma anche perché il consenso sull’introduzione di nuove tecnologie da parte dei lavoratori ne assicura un impiego migliore), nel Regno Unito, poca attenzione viene riconosciuta ai temi dell’informazione e della partecipazione dei lavoratori. Ciò sembrerebbe collegato al dato generale della loro scarsa sindacalizzazione e alla mancanza di una loro rappresentanza collettiva a livello aziendale. In controtendenza si pongono, però, i contratti collettivi dei settori sanitario e automobilistico, come pure gli accordi stipulati tra Tesco (impresa leader nella distribuzione) e il sindacato Usdaw. Tesco e Usdaw hanno, infatti, definito un sistema di coinvolgimento dei lavoratori complesso, che si articola su più livelli verticalmente ordinati. Ciascuna questione problematica viene affrontata nella sede più appropriata e la voce dei lavoratori può raggiungere i massimi livelli aziendali.
Per quanto concerne la formazione, in ogni settore considerato viene lamentata una carenza di investimenti adeguati. I datori di lavoro sembrano più attenti a porre in essere strategie per il breve periodo, che non investimenti fruttuosi sul lungo termine. Chi rischia di più le conseguenze negative di questa condizione sono i lavoratori della ristorazione e degli alberghi, dove l’automazione costituirebbe una minaccia concreta per quanti non arricchiscono il proprio bagaglio professionale. I sindacati, molto osteggiati dall’associazione datoriale British Hospitality Association (BHA), svolgono tuttavia un ruolo prezioso, organizzando corsi d’inglese per stranieri che si rivelano particolarmente utili per receptionist, camerieri, cuochi e addetti alle pulizie: tanti di questi lavoratori sono migranti.
Infine, con riferimento ai temi della diversità e dell’inclusione, si deve sottolineare che i sindacati britannici sono stati storicamente accusati di scarsa attenzione per le pari opportunità, tanto che s’è affermato abbiano per lungo tempo fallito nel rappresentare gli interessi di una larga porzione dei loro membri. Con il nuovo millennio, le cose sembrano essere cambiate e le pari opportunità occuperebbero un posto centrale nelle agende delle organizzazioni sindacali. Oggi, la maggior parte dei lavoratori sindacalizzati sono infatti donne, stranieri, disabili o membri della comunità LGBTI. Se guardiamo al contenuto degli accordi, iniziative in tema di diversità e inclusione si concentrano soprattutto sulla parità di genere, ma tendono a rispondere ai problemi che via via emergono, piuttosto che proporre cambiamenti di lungo termine.
Complessivamente, la produttività non costituisce un tema chiave delle relazioni industriali nel Regno Unito. Una contrattazione collettiva largamente decentrata, all’interno di un’economia di mercato liberale, ha infatti prodotto ambienti di lavoro dove i sindacati sono deboli o inesistenti e le pratiche manageriali sono prevalentemente volte al contenimento dei costi. Il settore sanitario costituisce una eccezione per il suo modello più “europeo” di relazioni industriali, ma è anch’esso caratterizzato dalla scarsità di investimenti in capitale umano e formazione. Eppure, la produttività rappresenta una sfida di assoluta importanza per il Regno Unito, perché è alla base delle possibilità di sviluppo e trasformazione delle imprese. Ma per coglierla, concludono gli esperti, c’è bisogno di un sistema di relazioni industriali diverso: un sistema coordinato di contrattazione collettiva capace di mettere imprese e sindacati nelle condizioni di affrontare insieme le sfide del cambiamento, nel segno dell’innovazione e della sostenibilità.
Andrea Rosafalco
Fabbrica dei Talenti – ADAPT
*Questo articolo sintetizza le principali evidenze emerse dal report Bargaining for the Productivity. THE UK case, a cura di Ulke Veersma, Laura William, Bethania Antunes, Tracy Walsh, Graham Symon.